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Up – R.E.M.

Ci sono dischi di cui già al primo ascolto sappiamo che saranno parte integrante della nostra vita. Tra questi, ne esistono alcuni capaci di generare un’emozione e perpetrarla nel tempo. Ne esistono alcuni altri capaci invece di reinventarsi ad ogni ascolto, lasciandosi legare ad innamoramenti ripetuti e ugualmente profondi. Questi ultimi non sono poi così tanti; si possono contare sulle dita di una mano. Ancorato stretto al mio polso, in questo ruolo, c’è Up, disco controverso e dibattuto nel 1998, anno di pubblicazione. Primo disco dell’epoca post Bill Berry alla batteria e visto dalla maggior parte dei critici come primo sintomo della decadenza del rock targato R.E.M., è per me invece una raccolta di ballate ben costruite: la dimostrazione che il tratto polemico e visionario della scrittura di Stipe può ben adattarsi ad ogni struttura letteraria o mentale che sia. La ballad, unità funzionale di Up, vive una sorta di evoluzione rispetto ai dischi precedenti, riuscendo ad unire la dolcezza della melodia alla verve rock più consona all’ispirazione che muove la tracklist. Up è il disco della contrapposizione per eccellenza: ogni brano è sospinto a metà nel confronto tra un modello socialmente accettato e una visione più intima della band di Athens. L’uomo è ancora una volta il fulcro della produzione dei R.E.M. di cui si mostrano come sempre i suoi limiti, senza però sminuirlo. Più che in passato, questo è il luogo della celebrazione della possibilità e dell’intelletto. Del sogno e della libertà, non come conquiste ma come diritti.
Il mio nuovo ascolto, il mio nuovo innamoramento, il mio nuovo brivido ha dimora in una cucina che profuma d’amore e torta di mele. Si insinua tra un gesto quotidiano e gli occhi felini del gatto di casa. Ha origine con Airport man: un’intro più che un brano fatto e finito. La declinazione di un lavoro grandioso, di un’opportunità non comune a molti ma che coinvolge solo uomini comuni (“The people mover discounted”). Segue Lotus, il pezzo più tirato di tutto il disco, forse l’unico. Il pezzo che fa respirare il passato meno recente della band. Da qui ha inizio quella struttura del doppio cui ho accennato: si individuano due momenti precisi nel brano. Un prima (“I was hell”), l’esaltazione di un uomo sicuro e certo della propria grandezza. Un dopo (“I ate the lotus”), il fallimento di quel modello nello scoprirsi sognatore, dimensione metaforicamente qui richiamata dal loto, fiore mitologicamente allucinogeno. L’immaginazione e la fantasia vengono invocati contro il dubbio e la razionalità in Suspicion (“Please don’t talk, don’t make me think… Imagination come alive / suspicion, tonight, I’ll dream tonight”). In Hope, un’intro delicatamente elettronica e rapida contrappone la speranza alla scienza. Stipe interroga la scienza, confrontando mezzi e risultati; critica la strumentalizzazione degli animali nell’ambito della ricerca, sottolineando quanto su questa influenzi l’accanimento dell’uomo e la sua capacità di credere in qualunque cosa pur di lottare anche contro l’inevitabile. La successiva At my most beautiful con la dolcezza e la delicatezza degli archi racconta un’istantanea d’amore puro chiuso negli sguardi silenziosi di chi ammira e di chi si lascia ammirare (“I count your eyelashes secretly, with every one, whisper I love you. I let you sleep. I know you’re closed eye watching me, listening. I thought I saw a smile”). Il ritornello è un haiku, piccolo gioco linguistico che prende spunto dalla letteratura giapponese, genere cui Stipe è particolarmente legato. Più accusatoria l’atmosfera in The apologist: è così definito l’uomo che ha la tendenza a ripetere i propri errori e a scusarsi altrettanto ripetutamente. È una sorta di autoanalisi in cui si rapportano le proprie diversità e i propri egoismi declinandoli come fonte della fallacia umana. Una chitarra lieve, fiati lontani e la voce via via meno spezzata di Michael Stipe aprono Sad professor. Dedicata al lettore in prima persona, come vogliono gli stilemi della letteratura dell’800, in questo pezzo l’intento è quello di decentrare l’attenzione dal ruolo didascalico dell’artista, attraverso la figura dell’insegnante. Il metodo è quello di mostrare i limiti, i vizi di colui che assurge a un compito ben preciso evidenziando quanto questi non siano poi così diversi da chi a quei ruoli si rivolge. Il concetto è poi approfondito in You’re in the air, dove si distingue tra il cielo e la terra e i loro rispettivi abitanti. Se comunemente si immaginano con i piedi ben piantati a terra coloro che hanno raggiunto la propria stabilità e, viceversa, vola chi vive nell’attesa e nell’immaginazione, qui è esattamente il contrario. L’essere nell’aria è sinonimo di serenità, di leggerezza date proprio dall’equilibrio; al contrario, la terra è ciò contro cui ci si scontra dopo la caduta condotta dai fallimenti e dall’insoddisfazione. (“I’m what you found. I’m upside down”). Ancora contrapposizione, ancora dualità astratte e concrete. Ancora anche nella nona traccia, Walk unafraid. Il ritmo imperante della strofa si apre nel ponte per sfociare nel grido di liberazione del ritornello: è la negazione di un modello comportamentale comune nell’affermazione di un sé anche incerto e claudicante. La paura può essere accantonata se si ha la piena convinzione degli strumenti a propria disposizione: “Walk unafraid, I’ll be clumsy instead. Hold my love or leave me high”. Quale strumento migliore del sorriso, come terapia contro la tristezza prolungata delle sofferenze quotidiane? (Why not smile). La successiva suggestione di Daysleeper è probabilmente il simbolo di tutto il disco. L’intensità si estende ad ogni livello, dagli strumenti alla voce, dalla melodia alle parole, senza interruzione. Ed è proprio l’assenza di interruzione ad essere cantata, in favore di quei ritmi circadiani di sonno e veglia che non conoscono l’alternarsi del giorno e della notte. Tutto è velocità e rapidità specie se considerato globalmente. Il mondo con i suoi differenti fusi orari non si arresta mai: la produzione è costante e sempre garantita, le borse non chiudono mai i battenti, l’economia gira vorticosamente tra i tori e gli orsi dell’ascesa e della caduta monetaria. E poi compare l’uomo che dorme di giorno, in atteggiamento di rifiuto verso questi meccanismi perversi di perseveranza. Il disco decelera con i brani che seguono e portano alla conclusione. Diminished è l’esplicazione di un omicidio allegorico con tanto di prove e alibi e che nel brano che lo segue, senza alcuna pausa, trova il suo verdetto (I’m not over you). Parakeet, il parrocchetto, altro non è che un inno alla propria libertà, non quella data ma quella da ricostruire: la metafora gioca sulla scelta di un uccello, simbolo di libertà per definizione, il cui commercio è illegale. Ma cos’è la libertà? Per Stipe e compagni è la forza dell’autodeterminazione: libertà è scegliere la propria posizione, il proprio posto nel mondo. Puoi scegliere di essere passivo, puoi scegliere di essere martire: la forza sta nella possibilità di condurre i propri passi nella direzione indicata da un nord interiore. Who cast the final stone? Who threw the crushing blow? Someone has to take the fall. Why not me… My actions make me beautiful and dignify the flesh” . Ogni risposta, ogni definizione, ogni grido, ogni soluzione proposta dal disco, trova conferma nelle sue stesse ultime parole: “Me. I’m free. Free”. (Falls to climb)
Ed io mi sento nuovamente libera di innamorarmi di ogni parola. Di custodirla, insieme al calore del legno e degli odori della cucina in cui è nato l’ultimo ascolto.

Credits

Label: Warner Bros – 1998

Line-up: Peter Buck (chitarre) – Mike Mills (basso) – Michael Stipe (voce) – Barret Martin, Scott McCaughey, Joey Waronker, John Keane, Bruce Kaphan (additional musician) – Jun Ching Lin, David Arenz, David Braitherg, Willard Shull, Sou Chun SU, Ellie Arenz, Jay Christy, Anne Page, Helen Porte (violini) – Paul Murphy, Ried Harris, Heidi Nichie, Patty Gouvas (viole) – Daniel Laufer, Elizabeth Murphy, Christopher Rex, Nan Maddox (violoncelli) – Douglas Sommer (contrabbasso)

Tracklist:

  1. Airportman
  2. Lotus
  3. Suspicion
  4. Hope
  5. At my most beautiful
  6. The apologist
  7. Sad professor
  8. You’re in the air
  9. Walk unafraid
  10. Why not smile
  11. Daysleeper
  12. Diminished ( + I’m not over you)
  13. Parakeet
  14. Falls to climb

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Un solo commento

  1. io ho passato una pasquetta di qualche anno fa da solo a casa a inventarmi coreografie pseudo-danzanti su questo disco. è il lavoro dei REM che ascolto più volentieri.

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