‘E sciure, m’arraccumanno ‘e sciure
Dicite ‘a gente che nun ‘e voglio ‘e sciure
Primmo pecché mo’ addore nun ‘o pozzo cchiù sentì
E pe’ sicondo nun voglio ca pure appriesso a me
Cierti sciure hanna murì
(‘O nonno mio, dall’album Mattanza, Napoli Centrale, 1976)
È morto James, viva James.
Suonò coi migliori, scoprì Pino Daniele, suonò con Pino Daniele. Era l’anima di Napoli, era la voce di Napoli, la musica di Napoli, la scena napoletana. Inventò il neapolitan power, inventò il canto in dialetto, inventò il sassofono, i capelli afro. Ha contaminato, ha interpretato, ha suonato, ha pure recitato, bevuto e fumato.
È morto James, viva James.
Un vociare ronzante in cui banalità, sincero dispiacere, inesattezze, verità e sonore sciocchezze si mescolano nel frullato caotico della società frantumata dei e dai social. Eppure, senza l’ardire di voler mettere ordine in tale marasma, ché non è il momento, verrà poi, anche vinti dal dispiacere alcune cose restano ferme e vanno ribadite. Oltre la ricchissima aneddotica e il proprio mondo di ricordi, anche familiari e affettivi, da cui toglierò solo l’impatto clamoroso di trovarmi sedicenne davanti al palco calcato da James e Gragnaniello, inaspettata conclusione di un partecipato corteo di contestazione studentesca.
James è Napoli.
Figlio della guerra morto in tempi di guerra. Una guerra globale che gli fa declamare con desolata pietà “le mani squartate d’a povera gente ca’ fa dint’ ‘a notte penziere cuntente e nun s’avverano maje, ‘ e figli mije“, nella sua ultima perla dolente Senza libertà, uscita appena due anni fa. Figlio della guerra, del momento di massima unione e massimo scoramento di un intero popolo, nato da tante guerre e genti diverse, che stavolta avevano anche la pella nera nera, nera nera comme a cche. E allora non è un caso che il giovane Gaetano Senese guardi all’America, al rythm’n’blues, al soul, a James Brown, finanche al blues di Janis Joplin, che nel ’68 aveva portato al successo Piece of my Heart, eseguita da James con i primi Showmen e la corposa voce soul di Mario Musella, nell’esordio della storica formazione partenopea (e viene da chiedersi in quanti conoscessero Janis nel ’68 italiano). Ma lo sguardo di James si posa ovviamente anche sull’America del jazz, di Davis da cui eredita il concetto di contaminazione, di Rollins e Coltrane che restano i suoi principali riferimenti sullo strumento, di Josef Zawinul che scrive la musica briosa di Credi, credi, credi in me, prima di lanciarsi nell’avventura Weather Report.
James è morto, viva James.
Orfano del soul di Mario, assieme al fidato Franco Del Prete, James trova negli Showmen 2 uno dei migliori e anche dei più sconosciuti momenti della ricchissima stagione progressive italiana, una band articolata in cui James si divide tra tenore, contralto e perfino flauto traverso in performance vorticose degne del miglior Jan Anderson. Un complesso, si diceva allora, in grado di trattare senza mezzi termini temi come l’omosessualità in Epitaffio, molto prima che divenisse un trend di fluidità petalosa, il razzismo con la ruvidamente esplicita Abbasso lo zio Tom, in un dialogo serrato in cui alla violenza dei bianchi, “negro, vicino casa mia non ti voglio più“, “negro, ricordati che Dio te l’ho dato io“, la voce rauca di James replica laconica “bianco, io ci credo ancora, ma tu invece no!“; e al coro da Ku Klux Klan “negro, negro, negro” ribatte urlando “Sono un uomo!“.
Un uomo. Ma James è morto, viva James.
Ancora con Del Prete nascono i Napoli Centrale, forse la più ardita, creativa e vitale risposta alle correnti jazz d’avanguardia degli anni ’70, dal Davis elettrico ai Weather Report, dai Soft Machine alla Mahavishnu Orchestra, con nelle vene il sangue caldo delle genti oppresse del Sud, i braccianti sfruttati nei campi, pelle arsa dal sole, in una Campagna bella solo per i padroni che si arricchiscono “Ma chi zappa chesta terra / Pe’ nu muorz’ ‘e pane niro / Ca ‘a campagna si ritrova /D’acqua strutt’ e culo rutto“. Siamo a Napoli nel 1975, ma potremmo tranquillamente essere oltreManica, oltreoceano, in un flusso artistico che nessun gap linguistico potrebbe arginare. E lo rivendica con schietto orgoglio e autoironia esilarante, James, recitando la parte di sé stesso nel film di Lello Arena, No grazie il caffè mi rende nervoso, “hai forse paura di non riuscire a esprimere correttamente i tuoi pensieri in italiano?“, domanda Lello, “ma che vo’ chist’? Chist’ è pazzo! Je aggio sempe cantato in dialetto, ‘e capito?! E accussì voglio cantà!“, la memorabile risposta. Ed è così che ha continuato a cantare, portando avanti la lezione dissacrante di Carosone (già perché il primo a cantare in dialetto forme musicali “forestiere” è stato lui, non va dimenticato), così come ha parlato, così come è stato, così come ha sempre vissuto.
Vissuto.
Sempre nella sua natia Miano, alla periferia di Napoli, “je so’ nato ccà e ccà voglio restà, chi se ne fotte ‘e ll’America“, inscindibile dalla sua terra, in un senso di appartenenza mai olografico, mai retorico, aperto sempre ai suoni del mondo, alle novità più fresche e autentiche, contro le ripetizioni stanche, le quotazioni al ribasso di un mercato musicale che ha abbassato negli anni l’asticella dell’offerta e impigrito la domanda con prodotti annacquati di massa sempre meno interessanti. Per questo James rimise in piedi i Napoli Centrale dichiarandosi ‘Ngazzate nire, “Me scenne ‘o latte int’e ginocchie / Cu’ ‘sti toscani e Jovanotti / Saranno pure brava gente / Ma fanno ‘a musica fetente“. James no. Ha fatto sempre la musica che ha voluto fare, che sentiva fluire, con la forza di una naturalezza emotiva, sentimentale, che tocca nel modo più diretto e profondo possibile.
Chi tene ‘o mare nun tene niente.
“Ti rendi conto che grandezza?“, chiede con trasporto James, ricordando l’amico Pino. E ti rendi conto, tu, James, che quel verso di abissale dramma esistenziale non lo avremmo afferrato senza quella tua tragica frase di sax, tagliente come sciabola, calda come brace, inesorabile come un diluvio? Ché Pino non sarebbe Pino senza James. E forse lì c’è stata davvero una “scena” napoletana, il supergruppo con De Piscopo, Esposito, Zurzolo e Amoruso, il concerto in una gremita Piazza del Plebiscito. Era sì un ensemble formato a Napoli da napoletani, ma il linguaggio artistico era d’avanguardia internazionale: una lettura in chiave geografica locale sta troppo stretta a un progetto ambizioso che si esprimeva in lingua madre mentre guardava al mondo. Così come anni dopo sarà stretto per James e i rinnovati Napoli Centrale la targa Tenco per miglior album in dialetto assegnato al dolente ‘O sanghe, proprio perché quello non è dialetto ma l’unica lingua, l’unica maniera di esprimersi che aveva James.
Ma James ormai è morto.
La sua musica invece non può morire.
E forse un giorno sarà proprio grazie ad essa che ‘A gente ‘e Bucciano potrà finalmente vivere in pace e contemplare la Campagna dal patio fresco della Pensione Floridiana.
Lost Highways Seek your mood, Find your lost highways!
