Si dice Cile e inevitabilmente si pensa alla Nueva canción chilena, a Violeta Parra, Victor Jara, gli Inti-Illimani e tutta una scena vitale di grandi musicisti, spezzata dal sanguinoso golpe di Pinochet nel 1973. Era la parte giusta della storia e il corrispettivo sudamericano di un cambiamento che anche in Europa passava attraverso la riscoperta delle tradizioni musicali popolari. Oggi, invece, da Santiago arriva una rock band agguerrita che si pone esattamente agli antipodi rispetto a quel mondo, sganciata da ogni vincolo con le sonorità andine, ad esclusione dello spagnolo dei testi che giocano un ruolo determinante nella creazione di un sound, sbrigativamente incasellato nella cosiddetta windmill scene, e invero molto originale. Come originale e indecifrabile è la bizzarra ragione sociale: Hesse Kassel; come l’omonimo langriavato seicentesco nel cuore del Sacro romano impero tedesco. I sei musicisti mostrano una naturale propensione per gli spazi dilatati, metà degli otto brani che compongono questo esordio supera i dieci minuti di durata, nonché una versatilità spiazzante e al tempo stesso intrigante. Così l’attacco noise di Postparto, quasi portone metallico che si spalanca scricchiolando, crea un aspettativa immediatamente ribaltata da un giro indie claustrofobico dal ritmo serrato sul quale si dipana, in mezzo ai tocchi eterei del piano, il testo declamato da Luca Cosignani, pronto a indagare con cruda brutalità le angosce assillanti del quotidiano in un climax di esaurimento nervoso: “Ser dueña de casa, amar, criar, cuidar, velar por mi seguridad / Valorar, compartir tu alma / Crear un sujeto con juicio normal / Crear un sujeto con juicio moral / O incluso tener un poco de sexo“. A metà strada finisce tutto in un frullatore schizoide che maciulla hard-core punk e paranoie selvagge da King Crimson, degne di 21st century schizoid man. Il sax di Renatto Olivares si avventura col piano di Joaquín “Chapa” González in una divagazione di jazz sognante, a metà tra Oregon e Marsalis, che si infrange contro un muro di accordi ipersaturi, dalle cui crepe arriva il suono di ottoni morenti. E dall’altro lato della parete si rinnova la luce di una tersa alba andina, Anova è un canto di risveglio di coscienza, art rock appassionato di coralità in crescendo, da urlare all’aria aperta sulla progressione circolare di accordi che sale spiraliforme al cielo in melodia ascensionale doppiata da voci di gioia liberatoria: le risate di entusiasmo quando finisce la composizione danno l’idea della sicurezza e determinazione della band. Americana poteva essere una canzone perduta di Emerson, Lake and Palmer per l’impianto decadente del piano che rimonta Take a peeble, ma poi imbocca la strada, annunciata nell’intro, di un rituale laico dal ritmo marziale, scivolando sulle lente cadenze di una preghiera di solitudine sconsolata cui solo un ritmo incalzante, infilzato dal sax, impedisce di sprofondare e anzi aiuta a ripartire di slancio, scagliando droni vischiosi e lisergici che illuminano l’orizzonte come una supernova. I Black Sabbath salgono in cattedra per l’attacco di En Tiempo Muerto ma cedono presto il posto ai conterranei del prog d’albione, prima nei fraseggi dei fiati, poi negli intrecci delle sei corde pulite, annodate in morbide sequenze pizzicate e glissate, in esplosioni che discendono dal lato oscuro della luna, dalle cui ceneri si alzano soffi leggeri di voci lacrimose. La vibrata progressione calante che anima Moussa in intrecci sognanti e slanci cruenti si allarga fino tingere un panorama mitico di pure sorgenti e candidi bagliori ancestrali, dal quale si innalzano maestosi pinnacoli, in ciclici ritorni di minimalismo post rock e dinamismo tagliente. Vida en Terranova parte come infuocata discesa agli inferi assestandosi in forma di canzone altalenante tra pianissimo rauchi e crescendo infiammati tra urla graffianti e tamburi tonanti sopra un muro di chitarre compatte. Le saturazioni hard di A. Latur quasi soffocano, come negli unisono urticanti degli Zu, tant’è che su una trama di vorticoso bordone metal si stagliano fiati balcanici e mediorientali, in amalgama imprevedibile e avvolgente, fino alla violente frustate elettriche del finale, brutale messa in scena delle torture perpetrate dai più sanguinosi regimi dittatoriali. Si avvia con un perfetto arpeggio indie la conclusiva Yo La Tengo, come il nome del famoso gruppo del New Jersey, che procede su una lama di tensione affilatissima nelle strofe declamate interrotte da deflagrazioni devastanti, cui segue sempre il solido basso di Matthew “Chuca” Hopper. Corde tese in vibrante protesta sociale “En Gran América se habla del sillón del papá / Y acá el mío, no tiene ninguna propiedad“, sospinta da un tornado di psichedelia hard rock apocalittica verso urla di primordiale energia. Un esordio che rischia di dar vita a un nuovo corso musicale con il Sud del mondo alla sua guida.
Credits
Label: Club De Discos 33.3 – 2025
Line-up: Renatto Olivares (guitar, saxophone, vocals) – Luca Cosignani (guitar, vocals) – Mauricio Rosas (guitar) – Matthew “Chuca” Hopper (bass) – Eduardo “Lalo” Padilla (drums) – Joaquín “Chapa” González (keyboards, backing vocals)
Tracklist:
- Postparto
- Anova
- Americana
- En Tiempo Muerto
- Moussa
- Vida en Terranova
- A. Latur
- Yo La Tengo
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