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Cowards – Squid

Squid - Cowards 2025Terzo disco in quattro anni per il quintetto di Brighton, che mette in copertina la foto, di disturbante saturazione pop art, di una coda di scorpione tenuta tra due dita di una mano, mentre un terzo dito si avvicina pericolosamente alla punta velenosa, quasi urlando quel Cowards che dà titolo all’album. Una sfida a rischiare pericolosamente, in un mondo dominato dal conformismo stereotipato, a mettersi in gioco e perseguire la propria strada, quali che siano le conseguenze. Così la “formula” della band, troppo semplicisticamente incasellata nel filone del post-punk, per il ritmo serrato e il canto grezzo del batterista e cantante Ollie Judge, viene strappata da ardite, divergenti esplorazioni che dilatano o comprimono, stratificano o prosciugano, inclinano o raddrizzano suoni e melodie, collaudati o nuovi di zecca. Come le suonerie impazzite di Crispy Skin che diventano accordi disseminati solo in apparenza a caso, ma dosati con cura, sul basso claustrofobico della miglior wave sfilzato dal beat di Ollie. Un gioco inconsapevole che sfocia in tragedia “One hit right between the eyes / It’s become so easy to take a life“, e un senso di impotente rimorso che affligge e s’insinua nel soffio di fiati mesti, nelle tastiere malinconiche, nelle chitarre tese, senza rinunciare a un granello di energia. Sale la rabbia al Building 650, disegnato da una melodia di accordi di rock quasi sinfonico, ma anche zeppeliniano, che ritornano come rampe di scale fino al terrazzo d’archi e cieli notturni che domina un panorama di desolazione urbana, di vite sfregiate, drammi sconosciuti. È uno sguardo disincantato sull’America e la fine del sogno, per questo ci si addentra in solitudine, con lente cadenze, in un deserto polveroso per trovare Blood on the Boulders, con in mente “That Californian sun on my face / All those drugs they / They fogged his brain“, ipnotica frase cantata a due voci appena sussurrate con l’aiuto del timbro caldo di Rosa Brook, su un oscuro ostinato in scivolata, che riporta alla San Francisco di Zappa e Jefferson Airplane. Ed è lì, nel bel mezzo del nulla, che il lungo e silenzioso cammino è interrotto da un’improvvisa voglia di verità che scatena una danza selvaggia, un vortice psichedelico di urla e ruvidi colpi in battere, jam di ossessione vocale frullata sotto chitarre distorte e acuti violini. Articolata in due parti, Fieldworks prende avvio avvitandosi su sé stessa come le scale di Escher, promessa reiterata in quattro sinuosi movimenti per altrettanti accordi arpeggiati, squillanti e strascicati; ed ecco che nella seconda parte, annunciata dal ritmo di ticchettio d’orologio, il sapore di ballata indie è gonfiato dall’ingresso degli archi del Ruisi Quartet, a scalare  una vetta di epiche pelli tonanti della batteria e acide chitarre d’acqua. L’acidità della wave più stralunata informa ancora il basso di Cro-Magnon Man, coi suoi coretti stralunati raddoppiati da una lucida chitarra è l’episodio più bizzarro dell’album, striato da varianti che sferragliano urticanti su fraseggi in loop schizofrenici, mentre si dipana la storia di un nostro remoto antenato “In the cobwebs that float over your bed / I’ll frame my life in the bones that I have left“. La title-track Cowards arriva con ronzio di trombe e piatti mistici con una chitarra languida in dissonanza, avanzando ma immobile nel proprio castello interiore, dove piove sempre mentre fuori splende il sole, fino al maestoso inno strumentale sospinto da fiati di speranza ancora viva “Don’t ever say you’re bored / ‘Cause there’s always something more“. Con un ritmo ciclico preso in prestito al Peter Gabriel di Up, Showtime! incita a rompere il gioco di specchi dell’ossessione per l’immagine che divora la società contemporanea: “Can I just watch? / Observe the things I’m not“. E come in The Lamb lies down on Broadway, la paranoia si manifesta in follie sonore scoppiettanti, sulle quali spiccare il volo in ritmica fuga dal mondo e riuscire finalmente a riderne. Il finale, affidato alla lunga Well Met (Fingers Through The Fence), parte in ondeggiante crescendo che risale, anche per gli intrecci vocali, alle sperimentazioni di Laurie Anderson, facendosi largo con sintetizzatori levigati tra una selva di rumori e sberleffi noise disseminati sul terreno, per poi raccogliere un arpeggio barocco e spiraliforme di harpsichord, ostinato e affilato, scandito da boati martellanti e lontani, mentre la voce di Judge si contrappone alla tromba rovente di Laurie Nankivell in monologhi divergenti, fino a fondersi in eterea nebbia purpurea. Ben fatto, cari Squid, in questo mondo a rotoli è venuto il momento di non esser più codardi.

Credits

Label: Warp Records – 2025

Line-up: Louis Borlase (guitar, bass guitar, vocals) – Ollie Judge (drums, lead vocals) – Arthur Leadbetter (keyboards) – Laurie Nankivell (bass guitar, brass, percussion) – Anton Pearson (guitar, bass, vocals, percussion) – Rosa Brook (additional voices) – Tony Njoku (additional voices) – Zands Duggan (additional percussion) – Chris Dowding (flugelhorn)

Ruisi Quartet: Alessandro Ruisi (Violin) – Venetia Jollands (Violin) – Luba Tunnicliffe (Viola) – Max Ruisi (Cello)

Tracklist:

  1. Crispy Skin
  2. Building 650
  3. Blood on the Boulders
  4. Fieldworks I
  5. Fieldworks II
  6. Cro-Magnon Man
  7. Cowards
  8. Showtime!
  9. Well Met (Fingers Through The Fence)


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