Due edifici ai civici 96 e 98 di St. Mark’s Place, New York City. Virati su una seppia sulfurea e privati di un piano per rientrare nel formato quadrato delle copertine dei vinili, i due edifici gemelli, fotografati da Peter Corriston per rappresentare il sesto album dei Led Zeppelin, non sono soltanto uno scorcio di veduta urbana, con la loro simmetria dissonante sembrano la sede di un’occulta loggia massonica dedita alla magia nera tanto cara a Jimmy Page. Costruzioni compatte, solcate dalle scale esterne antincendio, che invadono tutto il campo visivo, solide e attuali benché fondate in un’altra epoca e destinate a restare ancora a lungo nel paesaggio metropolitano di New York e nell’immaginario del rock. Nell’interno del packaging le finestre, che nella fronte accolgono il titolo dell’album Physical Graffiti, si popolano di personaggi come Lee Harvey Oswald, Marcel Duchamp e Papa Leone XIII, contraltare misterico della girandola festosa e psichedelica di Led Zeppelin III. Dopo il panorama da mitologia nordica di Houses of the Holy, i Led Zeppelin dichiarano di aver completato l’edificazione della loro arte, ergendo un monumento in terra straniera, ultimo atto della British invasion, dopo una serie di tour trionfanti negli USA. Eppure la band non registra nella Grande Mela, ma ritorna a casa nel cottage bucolico di Headley Grange, nell’Hampshire, dove era stato partorito il volume IV, per improvvisare su nuovo materiale che al termine delle sedute sarà bastevole per almeno tre facciate dei vecchi vinili. E allora tanto vale aggiungere, con qualche abbellimento, alcuni “scarti” dell’ultimo triennio, tenuti fuori dagli album pubblicati per un soffio, ma ad avercene scarti così! Il doppio vinile Physical Graffiti, registrato in gran parte con lo Studio mobile di Ronnie Lane, è già pronto a novembre del ’74 ma per ritardi nella confezione elaborata viene pubblicato solo il 24 febbraio 1975.
I Led Zeppelin hanno avuto inizi più scoppiettanti di Custard Pie, che s’impone tuttavia con graffiante riff hard blues che rimanda al granito ruvido del quarto volume della band, e la stessa the The Rover, risalente alle session del 1970 nel cottage di Bron-Yr-Aur in Galles, sembra ancora piazzata lì per carburare lentamente come un diesel, giocando su accordi pieni e un bordone ossessivo sul quale si spalmano gli assoli sovraincisi da Page quattro anni più tardi a dar fuoco alla miscela ormai dosata con esperienza e ardori appagati. Sebbene basata su un traditional registrato da Dylan nel suo debutto del ’62, la slide blues di In My Time of Dying diventa una delle più iconiche invenzioni del genio chitarristico di Page, sudore e fatica prendono corpo in quelle note trascinate sotto il cilindro vitreo indossato come anello, in una delle meglio riuscite re-invenzioni del genere. Jimmy aveva già dato prova di essere un virtuoso dello stile, ma qui va ben oltre marchiando con ferri roventi i graffiti fisici che danno titolo dell’album, battagliando col drumming fragoroso di Bonham, che incalza la band a seguirlo in lunghissima jam, di continui cambi tempo e riprese, pause e deflagrazioni che provocano le reazioni indiavolate del chitarrista e la foga sessuale di Plant, fino al colpo di tosse finale che ricorda il celebre “I’ve got blisters on my fingers” di Ringo Star. Houses of the Holy era stata registrata per l’album omonimo del ’73, con Eddie Kramer già tecnico del suono di Hendrix, viene qui rispolverata con minime aggiunte confermando una certa influenza della nascente disco sulla band, che ne assimila ritmi e soluzioni armoniche forgiandola in nuova forma rock. Ma quelle armi, che sparano a salve come in una celebrazione festosa, vengono caricate sul serio nel funk devastante di Trampled Under Foot e iniziano a far strage con un riff sincopato e metallico, il clavinet di Jones nero come la notte, un basso se possibile ancor più scuro, mugugni animaleschi e ululati della Gibson di Page, gli energici colpi del pattern di Bonham da cui si staccano mitragliate in controtempo che conducono freneticamente alla grandiosità epica di Kashmir. Nata da un’improvvisazione di Page and Bonham, la canzone è forse il vertice del doppio album, e una delle maggiori vette sorvolate dal dirigibile, sintesi definitiva tra la spinta rock blues sulla quale era ab origine fondato il sound della band e gli orientalismi esoterici che fondono melodie di ascendenza sahariana e maestosi archi indiani (in parte suonati da Jones al Mellotron e in parte da lui stesso arrangiato per sconosciuti turnisti), annodati da un cavo d’alta tensione che s’avvita in cerchi concentrici come le spire mortali di un serpente del Gange, visionaria avventura della musica alla scoperta di territori ignoti inesplorati. E da quei luoghi ancestrali raggiunti dai Led Zeppelin in trascendenza arriva il cantico pastorale di In the Light, affidato alle tastiere di Jones che sintetizzano il suono di un’antica cornamusa, prima di trovare il passo arrotolato di una mitica creatura in agguato tra l’erba, cui da voce Plant enunciando il suo richiamo salmastro, e una scala claustrofobica fa da riff alla strofa minacciosa per poi ribaltarsi come in un magico specchio a rischiarare i verdi campi dove un gregge fa ritorno, chiudendo il cerchio di una favola mistica, tra le corde saltellanti e vigorose di Page. E al riparo delle mura domestiche del cottage di Bron-Yr-Aur è ancora Page a fermare sulle corde di un’acustica squillante e avvolgente le impressioni nostalgiche e vivide della verde brughiera, solcata da ardenti aspirazioni, voluttuose carezze, coraggiose contese, profondo raccoglimento. Fatta la pace con sé tanto vale unirsi al resto della band Down by the Seaside e far tremare un tranquillo falò sulla spiaggia, con tanto di falsetto alla Neil Young, inscenando un sabba forsennato con streghe e pozioni, riportando tutto a casa in cerca ancora di amichevole quiete. Quella che anima la chitarra pulita che introduce Ten Years Gone ballata sanguigna e sapida, spaccata da un’incursione di bassi d’assalto e stimolata da nubi divergenti di assoli elettrici dai mille suoni. Inizialmente incisa per il quarto album, Night Flight avrebbe allora anticipato il glam col suo incedere ondulato, il rock’n’roll ammiccante di Page e l’Hammond scoppiettante di Jones, la voce roca di Plant, mai tanto vicina al feeling bluesy e piacione di Rod Stewart. The Wanton Song è un alter ego hard di Trampled Under Foot con ennesimo riff di Page a tagliar l’aria come una frusta d’acciaio, pronto a scagliarsi a rotta di collo in unisono infiammati sui tom esplosivi di Bonzo. E dal suo estro ritmico arriva il tempo martellante da saloon sgangherato di Boogie with Stu, frutto di una divertita jam session del ’71 col pianista Ian Stewart dei Rolling Stones, da cui scaturì pure Rock and Roll, giocando sul rockabilly di Ooh My Head di Ritchie Valens, con omaggio di Page alla sua formazioni skiffle. Le chitarre acustiche di Black Country Woman arrivano dalle session in giardino per Houses of the Holy, in linea con l’ebrezza folk del III volume, per un blues alla Skip James rimpolpato dalla tonante cassa continua di Bonham, con Plant che sfodera uno dei suoi migliori canti sensuali e ammiccanti. Il finale è invece affidato alla grinta hard di Sick Again pompata da battiti intermittenti sull’acceleratore, batteria pestata a sangue, grezzi riff in scivolata e cambi gamba tesa. Opera enciclopedica come il White album, può scontentare gli ascoltatori distratti e poco disposti al cambiamento, ma rappresenta invece la summa del potenziale artistico della più grande rock band di sempre.
Credits
Label: Swan Song Records
Line-up:
Robert Plant (vocals, harmonica) – Jimmy Page (electric, acoustic, lap steel and slide guitars, production) – John Paul Jones (bass guitar, mandolin, acoustic guitar, keyboards) – John Bonham (drums, percussion) – Ian Stewart (piano on “Boogie with Stu) – Uncredited session musicians (strings and horns on “Kashmir”)
Tracklist:
- Custard Pie
- The Rover
- In My Time of Dying
- Houses of the Holy
- Trampled Under Foot
- Kashmir
- In the Light
- Bron-Yr-Aur
- Down by the Seaside
- Ten Years Gone
- Night Flight
- The Wanton Song
- Boogie with Stu
- Black Country Woman
- Sick Again
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