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Marta Del Grandi @ Teatro Bolivar, Napoli 2 febbraio 2025

Marta Del Grandi, Teatro Bolivar - Foto Alessio Cuccaro 00
Ancora in tour col secondo album Selva, dopo oltre un anno in giro per l’Italia e l’Europa, Marta Del Grandi si concede il piacere di cambiare senza stravolgerli i brani tanti volte testati, regalando al pubblico del Teatro Bolivar gradite sorprese di raffinato minimalismo e armoniosi esperimenti vocali. La accompagnano stasera Vito Gatto al violino e all’elettronica assortita, che rimpiazza anche i fiati dell’album, Alessandro Cao alla batteria con misurata forza e diffuso estro, e persino il fonico Matthew Fortunati si presta per qualche nota di basso dal banco regia. Marta entra in scena da sola, abito lungo scuro e candida elettrica Jacaranda JK, sul cui manico imbastisce con suono pulito e affilato i suoi sofisticati arpeggi, aprendo il concerto in punta di piedi con la sognante Two halves, per poi allargare l’orizzonte col sole nascente di Eyes of the day, i suoi guizzi belle époque e la ripetizione estatica dell’invocazione “whеre have you been all this time?”. È la sera di una partita clou e lei scherza sul mancato sold-out “siete persone speciali perché scegliete i concerti anziché le partite… sulla programmazione del campionato ancora non ci sono arrivata“. Chameleon eyes va in scena col violino in luogo dei synth, la coda di vocalizzi e drumming sostenuto che sfocia in un dialogo calante con il violino. L’ansiogena trama sintetica di Mata Hari si apre in un campo sperimentale di fischi siderali e percussioni ardite, tra i piatti roventi di Max Roach e le pelli tonanti di Nick Mason, per ritrovare infine la linea melodica con l’archetto vischioso di Vito Gatto, mentre Marta modula le parti vocali sottolineando le ripetute accelerazioni del ritmo. E ancora le percussioni tribali di Snapdragon offrono i battiti giusti al vocalizzo libero e carico d’eco di Marta, che lancia frecce d’argento al cielo e improvvisa un canto totalmente nuovo, che accende l’entusiasmo dei presenti. Campanelli e sibili sinistri portano al fraseggio languido e wyattiano di Polar bear village, che svanisce in un manto di nebbia purpurea dal quale emergono i timpani inquieti di Good Story con la voce che s’invola su efficaci ritmi spezzati, sulla scia del duo Wildbirds & Peacedrums, tenendo sempre alta la tensione, mentre il violino si gonfia in eteree stratificazioni e densi flussi balenano nel buio. Con Selva, che dà il titolo al suo secondo album, Marta si abbandona alla costruzione mistica di loop vocali mimati con le mani a dipingere un pittoresco paesaggio bucolico, improvvisando una coralità che è simbolo del risveglio quotidiano della natura (sarebbe piaciuta a Disney per le geniali animazioni di Bambi Fantasia), un mondo mitico di gorgheggi e sussurri sul quale plana morbido il testo ellittico di un haiku, dodici parole ripetute dodici volte, scherza lei, presentandolo come svolta italiana, cosa che genera grandi aspettative per il terzo album. Annuncia “la mia canzone preferita di sempre” e parte Heart of Darkness degli Sparklehorse, che spogliata di slide country e tastiere tremule acquista una dimensione ancor più intima e nostalgica, specchio magico del più recondito segreto riposto nel cuore. Totally fine, dal primo album, si mette in scia nello scandaglio degli anfratti più oscuri dell’animo, sebbene retta da una trama percussiva in tempesta che rivaleggia con l’ostico e affilato arpeggio dell’elettrica. La melodiosa linea di Stay muta sotto gli affondi vibrati di Marta e la tenerezza da ninna nanna agguanta un corposo crescendo che conduce alla seconda cover della serata, addirittura Hotel Supramonte di De André, trasportando il registro baritonale del genovese sopra vette soavi di teneri sussurri, di miele di castagno che lascia l’amaro in bocca di una invincibile malinconia. La ricerca della propria identità, “scardinare qualcosa della propria proiezione verso l’esterno” perché “le identità delle persone non sono al primo posto nell’agenda del potere“, Somebody new s’impone come rito di meditazione collettiva sulla riva di un mare calmo, che prima culla con le sue onde calde e poi travolge l’animo con battiti impetuosi. Dalle alture del Nepal arriva in chiusura Marble season, presentata con tenera simpatia (“il cane … non si asciuga“), esplorando le cime asiatiche a bordo di un arpeggio dai bassi profondi dal quale si lanciano frasi che mescolano la lirica potenza di Joan Baez e la dolcissima intimità di Astrud Gilberto. E così, a dispetto della brevità del set, usciamo dal teatro col cuore pieno e in trepidante attesa del terzo album. A presto.

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