Abbiamo incontrato Guido Maria Grillo in occasione del nuovo lavoro Senza fine, uscito il 10 gennaio per la Visage music, per conoscerne la genesi ed i riferimenti, raccogliendo così conferma di una vena sempre più matura, risultanza di una carriera iniziata da oltre 15 anni. Tante le collaborazioni importanti che hanno contribuito a rendere sempre più granitico e meritorio il suo modo di abitare il panorama attuale.
Senza fine, quarta tappa del tuo poliedrico percorso artistico è un disco da cui emerge chiara la tua ricerca vocale che rappresenta un tratto distintivo, frutto di ascolti diversi e tanto studio. Quali sono i riferimenti a cui devi maggiormente ed a cui hai rivolto lo sguardo con maggiore attenzione?
La voce è il mio strumento, il mio lavoro, la mia primaria forma espressiva. Negli anni ho elaborato il mio personale linguaggio, seguendo molto l’istinto. Non ho riferimenti particolari ma, ovviamente, amo le grandi voci. Se dovessi sceglierne due che mi abbiano più profondamente segnato, direi Mina e Jeff Buckley. Se potessi aggiungerne altre, citerei, in ordine sparso, Anthony Hegarty, Roberto Murolo, Robert Plant, James Blake, Layne Staley, Tamino, Rosa Balistreri.
La tematica dell’addio è molto presente in questo lavoro. Osservata e scandagliata da angolazioni diverse individuando vittime e colpevoli. Quali addii ritieni possano essere salvifici e quali invece ritieni siano inesorabilmente inconsolabili?
Credo che l’addio sia la più tremenda condanna, per noi essere umani. Ha a che fare con la nostra finitezza, con la presa d’atto che ogni cosa concluda il proprio corso, muoia, torni alla polvere. Nella nostra visione antropocentrica, ci sentiamo il fulcro di ogni cosa, nel mondo, nelle relazioni, per noi stessi, dunque, fare i conti con l’addio, la fine, la dipartenza, l’abbandono è una coltellata al costato delle nostre convinzioni, più o meno consce. Trovo sia tremendo e disarmante. Dubito ci siano addii salvifici, nell’atto dell’abbandono rivelano sempre un fallimento.
Come è nata la collaborazione con Cristiano Godano che hai ospitato in Veleno?
Ci legano, da anni, profonda stima ed amicizia, precisamente, da quando abbiamo girato l’Italia in lungo e in largo, nel corso di un tour durato oltre 3 anni, Ex-Live, ideato da Giancarlo Onorato. Io partecipavo in veste di chitarrista e corista. Durante la produzione di questo disco, che è sintesi dei miei percorsi, estratto puro delle mie varie nature, dunque atto consapevole e, ormai, maturo, ho pensato fosse giunto il momento di chiedergli di condividere con me una canzone. Veleno è stata plasmata sull’idea della condivisione con Cristiano.
Dal primo album omonimo sono passati ormai oltre quindici anni. Se tu dovessi individuare qualcosa che ti manca degli esordi e qualcosa invece che potrebbe rappresentare il tuo obiettivo da qui a dieci anni?
Sono stati i 15 anni più mutevoli della cultura del nostro tempo, dunque anche della musica. Anni incontrollabili e imprevedibili, trasfigurati continuamente dalla tecnologia, dal web, dai social, dal pensiero mainstream. Io ed altri siamo stati travolti, ci siamo sentiti smarriti, schiaffeggiati, spesso fuori luogo e fuori tempo. Ecco, la chiave della mia salvezza “artistica” è, forse, stata l’alienazione dal tempo, il sentirmi estraneo, il concentrarmi sul fare musica che sfuggisse alle regole contingenti, che fosse senza tempo, appunto. Salvezza e condanna. Che sia stata una condanna commerciale è indubbio, che le sia rimasto uno spazio risicato è altrettanto certo, così come è certo che io abbia conservato una vitale purezza e coerenza. Oggi mi sento più sereno di un tempo, perché la musica che gira ha raggiunto tali bassezze da rendere la mia condanna all’alienazione decisamente più sensata.
Hai avuto occasione di collaborare nel tempo con molti artisti. Se dovessi individuare quali sono state le eredità migliori trasmesse da questi incontri, cosa ti viene in mente a primo impatto?
Da ognuno di essi ho imparato molto. Ho appreso i segreti del mestiere, la bellezza dell’istinto, dell’essere spiriti liberi e del talento. L’eredità più importante è probabilmente quella di Paolo Benvegnù, quella umana, emotiva, prima ancora che artistica. Paolo mi ha insegnato moltissimo senza saperlo e senza averne alcuna intenzione. Mi ha insegnato a dare il giusto peso alle cose, a sorridere anche in preda allo sconforto, non per fingere ma per reagire. Mi ha insegnato l’impeto dell’esposizione al pubblico, col suo petto gonfio, la voce potente, la concentrazione, il desiderio di lasciare il segno. Ancora oggi, pochi secondi prima di salire sul palco, penso a quel suo atteggiamento e mi raccomando di imitarlo. Ogni volta.
L’industria discografica attuale sembra sempre più un pericoloso vortice che tutto ingoia, restituendo molto spesso solo discutibili prodotti da banco, utili ad incontrare il “gusto” di un pubblico mediamente distratto ed interessato più ai grugniti elettronici che alla qualità ed alla ricerca che porta alla musica degna di tale nome. Come si combatte questa deriva nella trincea di voi artisti indipendenti e di chi continua a studiare?
Sono giunto alla conclusione che non la si debba combattere ma ignorare. L’entusiasmo e l’interesse che s’addensano intorno al Festival di Sanremo, emblema del mondo di cui parli, sono il più grande suicidio di massa che la cultura alternativa possa mettere in atto. Quel mondo va semplicemente ignorato, come accadeva solo pochi anni fa e come accade, ancora oggi, in molto Paesi stranieri. Ignorarlo significherebbe rimboccarsi le maniche per ricostruire alternative, mercati paralleli, reti di addetti ai lavori, discografici, club, agenzie. Ci siamo ridotti tutti alla corsa a Sanremo, che raccoglie indistintamente il presunto artista indipendente e il più ambito cantante da rotocalco per parrucchiera. Nelle scuole elementari si cantano le canzoni di Sanremo, anziché quelle dello Zecchino d’oro, e i bambini ascoltano le medesime playlist dei ventenni e, a volte, dei quarantenni. È evidente che qualcosa non funzioni, che il pensiero unico abbia divorato ogni cosa, che la musica si sia adeguata all’omologazione. Combatterla è follia, bisognerebbe semplicemente ignorarla, smetterla di parlare di Sanremo e lasciare ai presentatori del Festival il loro abituale pubblico, probabilmente, lo stesso che guarda Tale e Quale show o il Grande Fratello.
Qual è la canzone a cui sei più legato di questo lavoro e perché?
Probabilmente, Senza fine, perché credo condensi il senso profondo del disco e dell’intero mio percorso, l’incontro tra la musica d’autore, la musica sinfonica, le suggestioni della canzone napoletana. L’intero album è piuttosto granitico, non è semplice sceglierne una, tutte mi rappresentano pienamente.
L’ultimo disco che ti ha emozionato è l’ultimo concerto a cui hai assistito e che ti ha sorpreso?
L’ultimo disco che ho ascoltato con intensa partecipazione ed ammirazione è Sahar di Tamino. Il concerto che mi ha dato di più, Nick Cave and the Bad seeds, Push the sky away.
È appena iniziato il tour che ti vedrà Napoli ad aprile dopo aver attraversato l’Italia. Che tipo di set hai immaginato e chi ci sarà con te?
Saremo a Napoli il prossimo 10 aprile. Il set è anch’esso granitico, come il disco. La formazione è un trio, chitarre, voci, batteria, violino. Con me ci saranno due musicisti fantastici, dotati della necessaria sensibilità che le canzoni richiedono, Claudio Miele e Corrado Ciervo.