Si resta ragazzi in contemporanea, assieme. I suoi oltre trent’anni di carriera significano, ragionandoci con il sudore che compare sulla fronte, i miei oltre trent’anni dalle parti di un palco con le orecchie tese e le braccia stese a far entrare più volume possibile dalla bocca dello stomaco. Francesco Di Bella torna a sette anni di distanza dall’ultimo lavoro solista di inediti e riempie il vuoto completando un dittico tra sacro e profano, tra benedetto e dannato, avviato nel 2018 con ‘O diavolo. Nel fonte battesimale di una chiesa sconsacrata con convinzione e non senza prese di posizione, la produzione sapiente di Marco Giudici affonda l’aspersorio per benedire con gocce di suono intimo ed essenziale l’uscita di questa Acqua Santa, disponibile dal 31 gennaio. Liquido che per sua natura apre porte e protegge, ma che come il mare nasconde profondità da indagare con cura, scendendo dalla superficie fin dentro gli abissi. Ecco a voi Acqua Santa trasparente, che non si ha paura di bere, non temendo contaminazioni, capace di creare vortici in cui avere il coraggio eroico di muoversi controcorrente, come John Trollman truccato di una farina che divenne il suo olio da estrema unzione. L’amore è proprio questo, capace come acqua santa di attraversare tutti gli stadi della materia, ghiacciando come doccia gelata o nebulizzandosi come pioggia silenziosa che sa rinfrescare.
Che ‘a fa?, singolo che apre il disco, getta in terra un interrogativo diretto, sputato dall’urgenza di capire come cambiare le cose, nella terra abitata come nelle relazioni percorse, evitando che incancreniscano. Senza giri di parole, adottando lo stile dell’anatra di La Capria, non lasciando trasparire in superficie alcuno sforzo mentre si agitano sott’acqua affannosamente le zampe per restare a galla. Al centro del pezzo atterra Alice dei Thru Collected che, con voce marciante e delicata, toglie impermeabilità alle distanze, in un finale in cui l’alter ego rincorre l’io di partenza che dubbeggia e dubita della durata dei sentimenti. La voce di Francesco Di Bella scivola composta in Menammo ‘e mmane ed armonizza l’apologia della pazienza di attendere la notte per svegliarsi ad arterie pulite, lasciata la bufera alle spalle. Rimboccandosi le maniche e cercando di combattere i problemi con problemi più grossi, come indicava Elliot Smith. Mentre gli occhi lasciati in pegno per una schiena che si allontana, guardano sgretolarsi quella che era un’alleanza più che una coppia di anime. Sotto la luce incandescente di Stella che brucia dando vita ad un malinconico falò, si accomoda Colapesce a prestare la spalla di conforto nel guardare “la montagna di pietre e carità” che è l’amore, capace di far ringhiare di fronte alle difficoltà delle convivenze, di accapigliare con violenza, di scapigliare maliziosamente o di pettinare con cura. In una gimcana di discese trasformate in scalate ripide (o salite appese), come la vita di David Thompson, l’uomo che avrebbe potuto essere Michael Jordan prima di Michael Jordan ma che la sorte condannò a rimanere crisalide. In Canzoni, Di Bella seziona il senso di allontanamento in una relazione, usando il microscopio e la lente del tempo, quest’ultimo visto come “una vipera che morde chi dorme con te”. Con il veleno della routine a congelare le vene e gli arti un tempo capaci di danzare, quando l’audacia aveva abbastanza fiato da lasciare al palo l’abitudine. Fiati seduttivi gonfiano il petto in N’ata luna, una serenata mondata da qualsiasi ovvietà, con cui affidarsi alla mediazione degli appuntamenti con lo splendore per cercare di abbandonare il buio, per usare una immagine di Franco Arminio. E lì in mezzo, tra sogni impossibili e il mare che si schiarisce la voce, resta l’intercapedine stretta in cui provare a ritrovare la serenità complice. Bavero alzato contro gli spifferi in Mmiez ‘a via, con scarpe che vanno da sé senza confondere la velocità con la fretta, a percorrere a zig zag, da un marciapiede all’altro, strade su cui si incrociano infelici e malinconici, chi pensa che si starà meglio domani, chi si augura di trovarsi in paradiso mezz’ora prima che il diavolo sappia della sua morte. Alcuni pedinati senza pietà dalla nostalgia, tra l’erba incolta del tempo che sovrasta e sommerge, sconfigge e disegna nuove geografie di disappartenenza dove un tempo c’erano panchine ad accogliere e rose a profumare. Senza parla’ è un elogio del silenzio per chi sa usare le pupille, consapevole che l’unico modo per non sentire menzogne è non fare domande, come sosteneva un irlandese dal prepotente flusso di coscienza. Che in fondo sapere ed ignorare sono davvero due forme simmetriche di salvezza e le parole sanno essere riempitivi ingombranti ma concavi, trappole che finiscono per renderci colpevolmente la cena del ragno. Il sigillo sulla fronte è la title track, Acqua Santa, dall’ingresso avvolgente e che chiude i bottoni su una giacca lasciata aperta sul davanti, a riscaldare come un cocktail di endorfine-seratonina-dopamina. L’acqua santa, qui altro nome per l’amore, è una fontana che lascia sgorgare pace, scostando la testa dal cuscino di sasso su cui era stata posata, come il fantasma di Tom Joad del Boss, per ricoverarla tra campane e fili d’erba appena innaffiati, spegnendo le incontrollabili ipocondrie sentimentali che avevano affumicato l’anima. È che non bisogna mai credere che l’acqua sia asciutta, quella santa meno che mai, come vorrebbero farci intendere, con arroganza salottiera, quelli che hanno smesso di sperare nel giorno dopo, inaciditi da una sindrome da Marchese del Grillo che li colloca nell’ultimo giro di scale di una torre d’avorio dai bordi scheggiati dalle cannonate dell’aridità. Quest’Acqua Santa, intesa come sentimento che salva e costruisce, bagna tanto da restare beatamente fradici e neanche viene voglia di asciugarsi. Anzi, lascia addosso gocce piene e rare come uova di Fabergé e la consapevolezza che in un mondo dominato dall’individualismo, la chiamata in correità universale e la conseguente necessità di tenere la schiena sempre dritta, anche mentre viene attraversata dalla paura cieca come quella di Carlos Caszely costretto a scendere in campo senza avversario su un prato cileno ancora fetido di sangue e torture di generali assassini, diviene comandamento inevitabile. Usando i sentimenti, quelli capaci di far scorrere il sangue anche nel marmo come Michelangelo, quasi fossero collante e medicina salvavita per persone interrotte e popoli messi in croce, per cani di Pavlov e per chi invece fa suo il grande rifiuto di Marcuse, opponendosi alla seduzione consensuale del sistema capitalistico, scappando a gambe levate dai dettami gesuiti e dogmatici del Perinde ac cadaver. E allora che il battesimo abbia inizio, con Francesco Di Bella a confermarsi, con tutti gli onori del caso, quale una di quelle garanzie di qualità che ti aspetti di ritrovare ad ogni ascolto, ad ogni nuova uscita, preciso come una shinkansen giapponese ed al contempo coerente, talentuoso e netto come un taglio di Fontana.
Credits
Label: La Canzonetta Record – 2025
Line-up: Francesco Di Bella (Voce, Chitarre) – Alessandro Cau (Batteria, Percussioni, Elettronica) – Felice Calenda (Basso) – Giulio Sternieri (Pianoforte, Wurlitzer, Sintetizzatori) – Davide Strangio (Chitarra Acustica, Chitarra Elettrica) – Federica Furlani (Viola) – Francesco Panconesi (Sax Tenore) – Federico Fenu (Trombone) – Alice Triunfo (Voce) – Marco Giudici (Basso, Chitarra Acustica, Chitarra Elettrica, Sintetizzatore, Sega Musicale, Campionamenti)
Tracklist:
- Che ‘a fa?
- Menamme ‘e mmane
- Stella che brucia feat. colapesce
- Canzoni
- N’ata luna
- Mmiez’ a via
- Senza parla’
- Acqua santa
Link: Sito Ufficiale
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