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Planetarium – Sufjan Stevens

recensione_sufjanstevens-planetarium_IMG_201708È importante darsi cura, spazio e tempo da ritagliare su misura, fuori dai ritmi imposti. Un tempo-conchiglia e un’immaginazione da appuntare sopra uno sfondo scelto: il mare, la terra, le nuvole e un brulicare di altri mondi, confinati oltre la spessa coltre che le sovrasta; un brusio, uno strisciare, un silenzio così grande, da non poterlo mai afferrare per intero. Si sceglie la praticità perché è la dote che più si avvicina a una lista di ruoli e obiettivi specifici, da coniugare in un mondo sempre in corsa. Si cerca la riflessione, il respiro che placa almeno un istante, per restare svegli ben oltre il grado necessario alla sopravvivenza. Quel respiro, a volte, si corica su una schiera di note allacciate e suadenti, espanse: il viaggio comincia stando inermi, e trova un suo preciso andare sul finire del giorno, in una notte incipiente. Vi sono accordi pronti a dare la carica; altri, invece, porgono un nutrimento e un meditare nuovo, minuzioso: ascolto una musica lieve e spessa al contempo, la trovo imprevedibile, attenta, piena di una poesia che trova una voce più volte, ma resta incantevole ed efficace anche quando sono le sole note a legarsi. Si tratta di Sufjan Stevens, e della storia di un’energia imprendibile, latente e immensa: quella dei pianeti, del luccichio delle stelle, delle notti più buie tra le notti conosciute, e di ciò che le anima di un tempo senza memoria. Per qualcuno il tutto coincide con un atto di fede; per altri è scienza, oppure si palesa in uno stupore bambino che non trova fine mai, e si rinnova ad ogni sguardo. Planetarium è un itinerario che non contempla strade e luoghi conosciuti: 17 canzoni contenute in un album che non detta tempi, ma li accenna, li offre: scivola di immaginazione, in strumento, in riflessione tutta umana, da proiettare in un altrove che si può soltanto sospirare e apprendere in pochi bocconi, tra i racconti d’altri e le carte che ritraggono una parte di mondo con scrupolosa misura. Gli artisti coinvolti sono Nico Muhly, che di musica se ne intende: sfiora Björk e si perde nel bel mezzo delle orchestre sinfoniche; poi Stevens, Dessner dei National e James McAlister, che aveva già incontrato Sufjan Stevens – voce più che espressiva di Planetarium – nel progetto The Age of Adz.
Dalla collaborazione tra i quattro artisti deriva un’opera ricca dell’individualità di ciascuno: il bello è notare quanto la visione di molti riesca a condensarsi in un solo punto, senza cercare di fondersi o confondere, ma offrendo spunti e osservazioni molteplici disseminati lungo la durata dell’intero disco: oltre 75 minuti. Si approda così a un’astrazione lontanissima e vicina, a portata di mano. A questo serve un certo tipo di atmosfera: ad accorciare le distanze, pur ribadendole. L’album comincia con Neptune: è un brano chiaro, carezzevole. Poche note di pianoforte, quasi prudenti, introducono la voce di Sufian Stevens: essa stessa si rivela uno strumento, e sa farsi sottile, e poi vibrare, tacere, avanzare con impronta morbida, ondulata. L’ascolto è teso a cogliere il minimo dettaglio di un canto che è usato al pari di una dichiarazione di amore e comprensione. Non è certo un album che si presta alla distrazione di un istante. Bisogna seguirne le trame e gli intrecci, e di pianeta in pianeta giungere alla Terra. A quel punto ci si rende conto di quanto si faccia persino più corposo l’impatto anche iniziale: Earth al principio è strumentale. Le armonie vengono rilasciate piano, senza foga. Ogni suono ha una sua eco, sembra imitare il luccicare degli astri e poi il moto e l’attrito che un pianeta madre, così vario e vasto, genera sul tessuto dell’universo. La voce produce quasi uno stacco, arriva all’improvviso e per un istante si ha come un senso di spaesamento: sembra l’inizio di un brano diverso, ma è solo una maniera differente di proseguire: i minuti gocciolano via, lenti e arricchiti di parole e ritmi che cambiano, spezzano, accompagnano. Non si conosce prevedibilità, insomma, e sembra quasi una metafora dell’esistere: raramente qualcosa rimane immutato negli anni. Raramente la staticità porta un reale beneficio. Serve seguire e assecondare la propria, sfaccettata intimità, nell’essere e nel vivere secondo inclinazione.
Tra una traccia e l’altra, si depositano Halley’s Comet e Black Hole: una eterea ed lieve, l’altra inquieta e arricciata. Entrambe della durata di pochi secondi: parti più piccole di una grandezza immensa, da non tralasciare. E poi si scivola dai toni ammalianti e densi di una Black Energy, che invita e accoglie la parte più scura e misteriosa dei territori inesplorati, a quelli cristallini di Mercury, che accarezza, scompiglia, nutre.
Con Sun comincio un giorno tutto ombre, nuvole a chiazze e vento gentile: riflessione affidata a un’estate quasi smessa, coi suoi colori accesi, la sua allegria sfrontata, rumorosa e vivida. E all’energia di una stella che brucia e non smette, anche quando non ricama trame fitte e brillanti sulla pelle: energia uguale a quelle di un brano che, pur non avendo parole, di storie in mente ne accatasta molte. E per l’intera durata, restituisce calma al respiro e suggerisce un pensiero che ci vede protagonisti in qualità di abitanti di un mondo in costante divenire: siamo piccola e grande cosa, al centro esatto di un caos di straordinaria bellezza.

Credits

Label: 4AD – 2017

Line-up: Sufjan Stevens – Nico Muhly – Bryce Dessner – James McAlister

Tracklist:

  1. Neptune
  2. Jupiter
  3. Halley’s comet
  4. Venus
  5. Uranus
  6. Mars
  7. Black energy
  8. Sun
  9. Tides
  10. Moon
  11. Pluto
  12. Kuiper Belt
  13. Black Hole
  14. Saturn
  15. In the beginning
  16. Earth
  17. Mercury

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