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Parole e note da un mondo fatto di vetro: intervista ai Locomotif

E’ uscito a marzo per Irma Records, Twimog, disco d’esordio dei siciliani Locomotif, autori di un pop fuori dal tempo scrutato in trasparenza fra sinuosità jazz, umori elettronici e la voce impalpabile di Federica Faranda. Losthighways ha avuto il piacere di incontrarli per una passeggiata senza fretta nel loro mondo tutto di vetro. (La luna e gnac è in streaming autorizzato)

Fede, ho letto da qualche parte della tua paura di volare, se foste chiamati a suonare oltreoceano, escludendo mezzi di fortuna tipo navi da crociera, come pensereste di risolvere il dilemma?
Federica: escludendo mezzi di fortuna, probabilmente a nuoto (ridiamo, ndr).. no, è una domanda che mi pongo spesso, ma poi penso che non succederà mai quindi, la domanda si ferma lì senza risposta.

Mai dire mai…
Federica: Dici? Ci penserò su allora!

Locomotif era in principio Locomotives, duo di musica in prevalenza elettronica formato da Luca e Carmine. Poi la decisione di virare verso una formula  più pop-oriented e canora, e l’incontro con Federica. Ci raccontate questo cambio di rotta e soprattutto com’è avvenuto questo incontro?
Carmine: Io e Luca suoniamo insieme da una vita. Per un periodo abbiamo preso strade assolutamente diverse, sia didattiche che a livello progettuale. Poi ci siamo rincontrati decidendo di lavorare su questo progetto, inizialmente senza nessuna velleità… era una situazione molto carina, avevamo un set con vari synth, varie batterie e batterie elettroniche, tutto molto a incastro, sempre con molta attenzione ai suoni soprattutto di natura elettronica. Era qualcosa a metà fra un progetto classico e un progetto orientato più alla dancefloor. A un certo punto abbiamo avvertito quanto il progetto si mostrasse incompiuto, la forma dei pezzi, il linguaggio che si portavano dietro, era ancora qualcosa di troppo ibrido e sperimentale, quasi più orientato alla soundtrack piuttosto che alla forma canzone, quindi anche lontano dalle nostre radici, anche pop se vogliamo. Poi abbiamo avuto la fortuna di incontrare Federica sul nostro cammino e l’idea di scardinare praticamente tutto, ripartendo da zero. C’è stata dunque una fase di studio reciproco, per capire come potevamo incastrarci a livello anche di gusto e devo ammettere che i primi tentativi sono stati veramente pessimi.  Poi è nata Forget e da lì probabilmente è nato il progetto per com’è ora. Si è proceduto quindi per sottrazioni, per assecondare la forma canzone, perché nel progetto Locomotives tutto era un po’ estremizzato, anche e soprattutto a livello di strutture.

E direi che la formula raggiunta è un equilibrio molto convincente… così nasce Twimog, il vostro primo cd, il cui titolo è l’acronimo di This World is made of Glass, questo mondo è fatto di vetro. Un’immagine evocativa che è metafora anche della genuina trasparenza del vostro sound. Da dove nasce questa immagine?
Federica:  Come accostamento visivo e artistico ci piaceva molto l’idea e l’immagine del vetro, che in alcune sue forme è una cosa essenziale, minimale, trasparente, semplice ma in certi casi anche tagliente e fragile. Quindi l’idea che tutto ciò si avvicinasse un po’ a certe dinamiche del disco e al suo contenuto espressivo. E’ anche un’immagine che riflette un pizzico del nostro pessimismo e della nostra disillusione nei confronti del mondo in cui viviamo, non solo musicale; da qui l’idea di costruire una sorta di contenitore, un cofanetto di vetro in cui rinchiuderci e isolarci dalla routine quotidiana.

Oltre la nebbia del pessimismo e della disillusione, nella vostra bio leggo: “Twimog vuol dire che esiste un modo per fare sentire agli altri le cose che non sappiamo dire”. Credete che la musica continui, dunque, ad essere un linguaggio privilegiato?
Carmine: Sì. La disillusione ti porta un po’ a perderti, soprattutto se pensi a tantissime difficoltà che ruotano intorno alla musica, al mondo discografico e ti porta quasi ad aver voglia di mollare tutto. Ma la grande potenza espressiva di questo mezzo è qualcosa di cui poi alla fine finisci sempre per nutrirti. Per noi senz’altro la musica è il modo più consono per esprimere quello che siamo.

Ho letto che il contatto con Irma Records, la vostra label discografica, è nato in rete. Ci raccontate come sono andate le cose?
Carmine: Sì, tutto è nato su MySpace. Al classico invito, prima di amicizia, poi all’ascolto delle nostre cose tramite un messaggio, ci rispose pressoché subito Umbi Damiani, che è il fondatore e responsabile dell’etichetta, dimostrando il suo interesse. Poi ci siamo incontrati fisicamente in occasione del nostro ritiro del premio della critica MEI 2009 e da lì,  insomma, è nato tutto.

Cantate in inglese e anche come mondo musicale di riferimento guardate senz’altro oltre i confini nazionali, anche se poi esce fuori dal disco una cover di Gino Paoli (Amare inutilnente) e un brano (La Luna e Gnac) che è un omaggio al Marcovaldo di Calvino. Probabilmente nel mondo globale non ha più tanto senso interrogarsi su certe frontiere geografiche nella musica, ma esistono secondo voi delle caratteristiche di italianità identificabili in quello che fate?
Federica: A parte il mio accento? (ridiamo, ndr). La nostra idea è quella di essere assolutamente trasversali, anche geograficamente. Peraltro se uno ci deve provare, meglio puntare al grande, senza localizzazioni geografiche; la speranza è quella che il disco sia presentabile anche fuori dai confini nazionali, dove magari, ci si augura che le cose girino anche meglio di come girano qui in Italia. Personalmente spero che non si senta eccessivamente la nostra italianità. Preferisco, allora, l’appartenenza sicula a quella italiana, dovesse sentirsi geograficamente qualche suono o carattere nostrano, identificabile per esempio nella lentezza, nella morbidezza, in quella rilassatezza molto sicula del fare le cose con calma.
Carmine: Senza forzature, poi, l’inglese è la lingua che ci consente una migliore espressività, in base a quello che vogliamo trasmettere. Anche se siamo consapevoli che, radiofonicamente e commercialmente, è una scelta che non paga poi tanto.

Nonostante tutte le difficoltà di natura logistica, dalla Sicilia stanno venendo fuori giovani realtà molto valide (penso a Colapesce e prima ancora ai suoi AlbanoPower, a Niccolò Carnesi, Dimartino, Il Pan Del Diavolo, ecc..). Com’è vissuta questa realtà vista dall’interno? Esiste una scena siciliana?
Carmine: Non credo esista propriamente una scena siciliana. Esistono molti progetti validi in Sicilia, ma non esiste il filo conduttore logico che li leghi fra loro. C’è molta casualità e indipendenza, e questo nonostante la realtà dei musicisti palermitani sia, per esempio, molto congiunta e i musicisti siano molto vicini fra loro.

Poche settimane fa, Lorenzo Urciullo (ndr. Colapesce) è stato molto duro, in una nota sulla sua pagina facebook, nei confronti di un locale e della pessima accoglienza che lui e la sua band hanno ricevuto, e puntava un po’ il dito contro l’impreparazione, se non addirittura la totale mancanza di professionalità e rispetto da parte di alcuni gestori di strutture che si occupano di musica dal vivo, nei confronti dei musicisti. Voi che esperienze avete avuto finora e qual è il vostro parere in merito?
Federica: Diciamo che ci sono diverse prospettive dalle quali rispondere  a questa domanda. Se percepisci la tua musica come voglia di fare, di crescere e fare esperienza, sei disposto davvero a tutto, anche a dormire per strada. Soprattutto poi se pensi ai grandi che davvero hanno suonato in posti assurdi, dormito in posti altrettanto indecenti e sono stati trattati come gente comune. Da un’altra ottica, dalla parte concreta del mondo, a volte, la scelta di fare musica può essere letta come scegliere di non fare niente, ignorando il fatto che dietro c’è un lavoro abbastanza faticoso e sacrificante; soprattutto per chi ha un altro lavoro e, quindi, per vivere, è costretto a fare le due cose contemporaneamente partendo da casa e lasciando tutto, famiglia, figli… Molte volte, per strada, tra il sonno e la stanchezza ti capita di farti spesso la domanda: “ma chi me lo fa fare?”. E’ chiaro che lo si fa per vocazione, ma a volte trovarsi di fronte a gente disinteressata, che non gratifica il tuo lavoro e la tua voglia di esprimerti, ti porta a mettere in discussione tutto.  Dall’altro lato ti rendi conto che, anche dalla parte di chi organizza e ci crede, ci sono grossi sacrifici, anche economici, oltre che fisici, nell’organizzare un evento, quindi cerchi di comprendere anche le loro ragioni e spesso la verità, dunque, sta nel mezzo. L’unico modo è sopperire con tutto quello che la musica riesce a dare, quindi l’ospitalità, l’amicizia, la condivisione delle cose positive ed è lì che si crea una situazione davvero ideale, che molto spesso sia l’artista che l’organizzatore rincorrono.
Carmine: Ovviamente a volte si sente la necessità di rivendicare quel minimo garantito, a livello di ospitalità, trattamento e anche di rispetto non solo per il musicista. Cosa che, purtroppo, non sempre viene fatta.

Federica, per alcuni colori la tua voce mi ha riportato a cantanti straordinarie come Skye Edwards (Morcheeba). Quali sono i tuoi riferimenti tra le grandi voci femminili?
Federica: Mia cugina! (ridiamo, ndr.) No, diciamo che un po’ mi fanno paura le similitudini. Diverso è il discorso dei riferimenti. Il mio cammino musicale è sempre stato molto legato al jazz e in particolare a Billie Holiday, che è il mio mito da sempre. Con questo non ammetto di avere un tono di voce neanche simile al suo, ma se dovessi pensare a una voce che sia fonte di ispirazione quotidiana e di commozione, penserei sicuramente a lei.

Se dalla valigia dei Locomotif doveste tirar fuori un disco, un libro e un film che rappresenti ciascuno di voi, quali sarebbero?
Federica: Dovessimo sceglierne un libro che probabilmente ci accomuna tutti sarebbe senz’altro Marcovaldo (Marcovaldo, ovvero le stagioni in città di Italo Calvino, ndr). Come film io amo molto Harold e Maude (USA 1971, diretto da Hal Ashby, ndr) e come disco, uno su tutti, sceglierei Kind of Blue di Miles Davis.
Carmine: Come libro e film, siamo assolutamente d’accordo con la scelta di Federica, proprio per il mondo che c’è dietro. Come disco, se proprio dovesse uscire fuori un titolo da isola deserta, probabilmente ti risponderei Amnesiac dei Radiohead, o comunque un disco dell’ultimo periodo.
Luca: Ti rispondo anch’io coi Radiohead, anche se probabilmente con uno dei primi dischi.
Federica: I Radiohead, li scegliamo, in tutte le loro evoluzioni insomma!

La luna e gnac – Preview

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