Dopo aver accolto con entusiasmo Santo Sud, l’ultima prova solista di Dario Sansone, lo abbiamo incontrato per una lunga chiacchierata sul cambiamento della sua città, del suo percorso artistico e della musica degli ultimi anni, per cercare di capire insieme cosa accade oggi e cosa aspettarci dal domani.
Allora, Dario l’ultima volta eravamo nel backstage, se ricordi, del concerto dei Foja al Palapartenope per il tour di ‘O treno che va…
Quindi stiamo parlando di dieci anni fa?
Qualcosa in meno, era il 2017, concerto di chiusura del tour, non siamo ancora così vecchi…
Mamma mia… comunque sì, siamo vecchi!
Cosa è successo da allora?
Abbiamo fatto sicuramente un altro disco, Miracoli e rivoluzioni. Forse abbiamo fatto anche la tournée in Canada, c’è stata una piccola pandemia di mezzo…
Sì, poi c’è stata la fuoriuscita di Ennio Frongillo alle chitarre, avete concluso il tour e poi i Foja sono andati in pausa…
Sono andati in pausa, sì, perché proprio in quel periodo ho scritto una quantità inaudita di canzoni che avevano un’altra esigenza, un’altra atmosfera rispetto a quello che una band richiede; quindi, mi sono trovato a fare una piccola rivoluzione: andarmi a cercare per scoprirmi nuovo con un progetto solista che comprendesse più parti di quello che faccio, tra disegno, racconto, canzoni, musica. In più si è aggiunta una trasformazione della mia città che mi ha portato a considerazioni diverse rispetto al napoletanesimo imperante e la napoletanità, che sono due cose distinte. Questo progetto mi ha spinto ad allontanarmi per guardare meglio quello che sono.
Quindi la consideri più di una pausa, è l’inizio di un nuovo percorso solo tuo?
Oltre a vivere il presente non posso fare altro, soprattutto in questo momento storico in cui pare che l’umanità non voglia proprio progettare un mondo più prosperoso e immaginare nuove prospettive. Ma non dimentichiamo che nel 2026 i Foja compiranno 20 anni di vita e sicuramente una festa ve la potete aspettare. Le anime si devono tenere unite e al momento penso a questa ricorrenza senza certezze. È un progetto in pausa, ma non è finito, non ci sono state chiusure tra noi, i Foja sono stati la mia vita. E comunque ne sono ancora il leader checché se ne dica insostituibile (ridiamo, ndr).
Te lo concedo.
Col tempo, si potrebbe immaginare di aprire il progetto a un collettivo, abbiamo sempre avuto il palco pieno di ospiti. Sì, un collettivo potrebbe essere un’idea vincente. Più vado avanti e più mi accorgo che la libertà artistica si manifesta quando riesci ad aprire il cervello alle cose che arrivano, anche le più strambe.
Santo Sud lo ritengo il tuo secondo album solista, perché considero tale Criature, anche se è la colonna sonora ufficiale dell’omonimo film. Com’è nata questa esperienza?
Sono due cose parallele. Non so come ho fatto a realizzare tutte queste cose; infatti, ora non ho voglia di far niente se non suonare. Ho fatto il libro, il film… non si è capito niente! Criature è nato sulla spinta e la voglia della regista, Cécile Allegra, che mi ha voluto fortemente per le musiche, perché voleva fare un film che parlasse di Napoli e in particolare di un aspetto urban della città. Si parla di bambini strappati alla malavita e di una storia bella, quella del Tappeto di Iqbal di Giovanni Savino, che ha ispirato il soggetto; si tratta di una cooperativa sociale che opera a Barra (quartiere alla periferia est di Napoli, ndr) e si occupa proprio di recuperare i ragazzi dalla strada attraverso l’arte circense, per squarciare il buio e dare una prospettiva di luce. Allegra voleva una colonna sonora che non fosse la solita dei film napoletani degli ultimi 20 anni. Si è affidata a me e mi sono fatto questo viaggio divertendomi moltissimo, anche perché era la prima volta in cui affrontavo un’intera colonna sonora da solo. Ci sono due canzoni scritte per il film, una delle quali, I’m walking, per un attimo ho pensato dovesse finire nel nuovo disco, ma poi ho deciso che fosse più sacro e giusto dedicarla totalmente al film. È stata un’esperienza ricca, anche grazie all’interpretazione molto intensa di Marco D’Amore in una canzone. Il caso ha voluto che questa regista italo-francese ascoltando i provini di Santo Sud mi introducesse a una serie di frequentazioni francesi, che in seguito mi hanno permesso di conoscere Seb Martel tramite la cantautrice napoletana Flo. Tante coincidenze ci hanno unito ed è iniziata questa ricerca di suono per me nuova, inizialmente spaventosa: stavo abbattendo tutte le mie certezze, come richiede ogni processo di maturazione e di grande rivoluzione. Adesso sono felicissimo, è un disco che mi piace ancora molto. Quando abbiamo cominciato con i Foja sentivo l’assenza di una band di folk suonato che avesse infiltrazioni del folk americano o del mandolino irlandese, che si poteva usare come un mandolino nostro per creare un suo nuovo. Adesso quella cosa mi sembra un po’ abusata e ho cambiato strada, anche per dare più spazio alla voce. Ho esplorato un modo di cantare diverso, non avere un batterista che picchia alle tue spalle ti porta a sperimentare anche altro.
“I’m walking on my way” sono le parole del protagonista del film, interpretato da Marco D’Amore, parole di forza di volontà e determinazione a uscire dalle tenebre. C’è speranza? Cosa manca qui, di cosa avremmo bisogno?
Potrebbero essere anche le mie parole, mi ero proprio calato nel protagonista. La speranza ci deve essere per forza e mi rendo conto di quanto sia difficile oggi per chi ha un po’ di testa, perché tutti i valori adesso sono messi in discussione. Però, come si fa senza speranza? La speranza va coltivata, anche se a volte mi fa incazzare, perché nel vivere di speranza pare ci sia sempre un qualcosa di più forte che debba intervenire. Dovrebbe essere un elemento di partecipazione attiva, invece ci ritroviamo a dire “eh, speramm’…”, aspettando chissà che. Ma cosa dovrebbe succedere? Per come stanno le cose non accade proprio nulla. È una cosa molto nostra questa dell’attendere un Masaniello o una figura esterna, però non bisogna mollare il pensiero positivo, dobbiamo essere consapevoli che in questo mondo ci sono ancora cose meravigliose da proteggere: tutto dipende da noi.
Per concludere il capitolo cinema, ci sono progetti per il cinema di animazione?
Sono un po’ fermo in realtà, anche se mi sento sempre con il mio sodale Alessandro Rak; ci vediamo spesso e aspetto un progetto per il quale ci si veda di nuovo in carreggiata assieme. Santo Sud mi ha preso tanto, dandomi tanto; quindi, adesso che sono in tour progetto ancora cose sulla scia di questo disco, che credo abbia ancora da dire. Quando avvertirò il bisogno di nuove ispirazioni, andrò in un’altra direzione. La mia vita è così, ho la fortuna di poter seguire l’ispirazione, anche se questa ha un costo. Non svenderò nulla di quel che mi piace. Significa tutelare la propria essenza e tutelare anche il pubblico. Perché ci vuole sincerità. Al momento siamo dentro a questo racconto che amo, anche se vivo di un’ansia difficile da capire; da qualche mese non scrivo canzoni complete, solo bozze: questa cosa mi fa sentire finito. Se non disegni non sei un disegnatore, se non scrivi non sei uno scrittore. C’è un oblio tra una canzone e l’altra, un vuoto esistenziale che ti fa mettere in discussione qualsiasi tua qualità pregressa.
Mi sembra una sensazione infondata per te, ma del resto le sensazioni prescindono dal razionale. Allora, arriviamo a Santo Sud, com’è maturato questo concept, nei contenuti testuali e anche grafici che costituiscono un insieme organico?
Bella domanda… è nato da una serie di canzoni che poi mi sono accorto, mettendole in fila, raccontavano il mio rapporto con la mia città e col mondo che vivo, è un lavoro centrato sulle sensazioni, perché ho sofferto molto questa gentrificazione nella mia città, questa sovraesposizione che mi fa temere si possa smaterializzare, tanto è sotto un cono di luce potente. Che si possa smaterializzare nella sua essenza, nella sua verità; una verità più semplice, e più ricca, di tutte le complicazioni che vogliamo mettere intorno. Chi è napoletano non ha questo bisogno di sottolineare continuamente i cliché che abita, che vive e a cui appartiene. Questa gentrificazione l’ho vissuta sotto i miei occhi, abitando ai Quartieri spagnoli, olio e pizze fritte dappertutto…
Non credi che rispetto ai Quartieri di 20 anni fa ci sia un cambiamento in positivo?
Sì e no, come ogni cosa. Ci sono spazi più aperti verso il mondo, ma sei sicuro che ci sia culturalmente un’evoluzione?
No, non vedo evoluzione culturale, quanto piuttosto una nuova possibilità di avere introiti attraverso attività alternative agli scippi e allo spaccio, fenomeni che forse non spariranno del tutto neppure in cent’anni.
Ma perché, non vedi rubare? Perché certi fenomeni non spariscono? Dovremmo chiederci questo piuttosto che darci in pasto alla facilità. A me va benissimo il turismo, va bene tutto, ma quale progetto si sta realizzando?
Non c’è progettualità, questo è indubbio.
E allora di cosa parliamo, prendi i soldi e scappa? A me non sta bene, se permetti, in quanto figlio di questa città. Per fare pace con questa cosa mi sono dovuto allontanare. Ispezionarmi e ispezionare da lontano la mia città, per poi reinnamorarmi di tutto quello che mi apparteneva. Mettere tutto quello che è più alto, come la Santità, e tutto quello che viene dal basso, come il Sud a volte viene inteso, in equilibrio. Da qui nasce il titolo dell’album che tiene in equilibrio su un filo due aspetti opposti tra loro: è il segreto di questa città. Anche nel lettering ci sono due frecce che significano questo, c’è un uovo che è simbolo di maternità, di protezione, ma è anche una gabbia a volte, con una toppa che può essere aperta, perché ci si può emancipare da tanti pensieri. Per farlo bisogna muoversi. Bisogna farsi delle domande. Capire che le risposte le hai solo tu, non te le dà nessuno, è inutile prendersela costantemente con quello che è fuori. Il primo cambiamento lo devi fare tu, la prima rivoluzione. Da tutto ciò nasce questo progetto caotico quanto la mia città, quanto quello che ho in testa e quanto la mia vulcanica over-produzione.
È stata fondamentale in quest’album la produzione di Seb Martell.
Sì, sì, lo è stata, proprio per farmi scoprire un nuovo tipo di musica e anche una persona eccezionale, un altro mondo, un quartiere, Montreuil, dove ormai sono stato nove volte quest’anno, dato che l’album è stato registrato per la maggior parte in Francia. È stato missato a Cuneo da un ingegnere del suono messicano che viveva a Berlino. Masterizzato a Cercola da un francese, insomma, è un album giramondo. Seb ha dato un grandissimo contributo. Tra l’altro lui è il mio opposto, il Karma me lo ha mandato, perché è di una lentezza incredibile, cioè, sulla musica è molto rapido nelle decisioni, ma nel resto della vita è come un bradipo. Questa è stata una grande prova per la mia insofferenza innata, la mia foja, però ho imparato anche questo, a saper aspettare. È lento ma anche molto concreto, un talento musicale incredibile, che fa cose eleganti, minimali, sorprendenti a livello armonico. Sapevo che non stavo facendo un disco mainstream, volevo un disco che invitasse il pubblico a prendersi un tempo diverso rispetto a quello che oggi richiede il mercato musicale, fatto di tre minuti, di tutto e subito, dell’acchiappaggio e dell’operazione che funziona. No! Se funziona già mi spaventa. Una cosa deve essere rotta, poi si può aggiustare, però se sta funzionando qualcosa non va, stiamo fabbricando un prodotto non stiamo facendo arte.
In questo discorso hai coinvolto anche tanti musicisti, Simona Boo, Ciccio Merolla, Marco Sica…
È stato tutto casuale, sai, questa cosa dei featuring, che pare siano quasi un obbligo, ha rotto! Ho lasciato fluire ogni cosa. Ed è capitato che Seb abbia visto Ciccio Merolla suonare un accendino in un reel e subito si è entusiasmato, “ah chiamiamolo”; il giorno dopo lo abbiamo incontrato per strada, “senti a me dispiace, ma devo chiamarti a suonare solo un accendino”, e lui “qual è il problema? Non ti preoccupare”. Tutte queste persone hanno abitato questo momento della mia vita. Nel disco e nell’incontro con Seb e non c’è stata nessuna forzatura, ma solo il fluire del viaggio. Incluso Marco Sica e Pierluigi d’amore, componenti di Guappecarto’, una band che conosco da una vita, che abbiamo inserito in tante colonne sonore: sono amici e adesso fanno parte di questo progetto.
La preghiera che apre l’album, da un lato ha qualcosa di messianico che rientra in un approccio dichiarato, quasi religioso, al tema che hai affrontato…
Anche se io sono Satana… Spirituale mi piace di più, la religione è una cosa pesante.
Ok, spirituale. Ma è anche un preciso messaggio politico e sociale: secondo te, quanto manca oggi un certo tipo di impegno nella musica? Aggiungo che qualche giorno fa, ad esempio, ti ho visto su un palco con una kefiah attaccata al microfono. C’è un clima di paura a schierarsi per la Palestina?
Mi vedrai spesso con la kefiah. Ma adesso, come vedi, è tutto molto allineato a un flusso propagandistico, ho la sensazione che si sia un po’ smorzata la cosa. Qualcuno finalmente ha iniziato a esporsi sulla questione palestinese. Forse perché mancano pochi palestinesi alla fine. Chi lo sa? Però a me non interessa guardare a quelli che non fanno, anche se mi fanno incazzare a bestia, perché uno come Jovanotti potrebbe dire una “parolella” ogni tanto. Cambierebbe molto. Soprattutto quando fai il Che Guevara “de’ noartri”. Poi non so se l’abbia fatto, non seguo tutti gli artisti. Per me non esiste che fai arte e non ti occupi del mondo che abiti, non esiste che non soffri per le ingiustizie dei nostri giorni. In questo momento, più che mai, non si può mollare neanche un centimetro, mi sentirei inutile, ipocrita. Per altro non è neanche la cosa più complicata del mondo dire due cose, tanto comunque non se ne fottono. Tanto è vero che in Santo Sud ci sono solo tre canzoni d’amore, palesi, il resto sono indagini e domande sul nostro mondo. Parlavamo di Napoli, ma in realtà è un disco che guarda all’umanità e ad un momento preciso: quando senti di stare sul baratro e vuoi cambiare tutto. Schierarsi è fondamentale, ho trovato molto squallido il fatto che chi ha un grande megafono ha potuto tacere. Peggio ancora, fare pubblicità a McDonald’s e poi sventolare la bandiera palestinese: c’è qualcosa che non funziona. A meno che non usi i soldi di McDonald’s per dare una mano a qualcuno, ma ne dubito.
Restando sul tema della musica odierna, come vedi la scena napoletana rispetto al decennio trascorso?
Finalmente è sotto i riflettori che merita e adesso deve fare di più, essere all’altezza della nobiltà e della tradizione culturale che l’ha preceduta. Abbiamo vinto il Tenco con La Niña del Sud, progetto che ha a cuore un’eredità nobile. Però a me scoccia parlare di un mondo a parte, la musica napoletana è inserita nella musica del mondo. Io mi sento cittadino del mondo, non mi sento solo napoletano. Ho la mia storia, ma può essere la stessa storia di un cubano. Napoli sta bene perché produce musica e oggigiorno vedo talenti che qualitativamente, anche a livello tecnico, sono incredibili.
Per esempio?
Me ne passano tanti davanti agli occhi, che tecnicamente cantano bene. Alessandra Tumolillo è un talento incredibile, come suona, come canta, è spropositato. Sono innamorato anche di una scena underground come i Thru Collected. Per me sono una grandissima formazione, è un sogno che si realizza.
Hanno da poco fatto un mini-album con Giovanni Truppi…
Un album he è stupendo, più che un’idea, è proprio un disco bello, si vede che si sono divertiti, che hanno messo dentro cose. Mi piace l’idea di libertà, avere un collettivo aperto, fatto di artisti di varie discipline: ci vado a nozze! Sono tantissimi, di certo sto dimenticando qualcuno. Vorrei che ci fosse piena sincerità, perché a un certo punto ci stancheremo anche di questo cliché che viviamo, di “street” e di tutte queste parole che si svuotano. Altrimenti l’intelligenza artificiale penserà a fare meglio di noi (ridiamo, ndr).
Spero di no, detesto già il solo concetto di intelligenza artificiale, bisognerebbe trovare un’altra definizione della cosa.
Tu detesti, ma questa cosa è già sfuggita di mano, hai voglia a detestare. Fra poco non riconoscerai più nulla.
Intendi nelle arti visive o anche nella musica?
Anche nella musica. Tu già non te ne stai accorgendo di quante cose siano realizzate con IA, anche in composizione, ci sono dischi interi.
Ok, ma sono dischi che fra cinque anni ricorderemo ancora?
Questo è un problema legato anche alla saturazione del mercato, come si fa a ricordare, qua escono cinquantamila canzoni al giorno, io non ricordo più niente (ridiamo, ndr). È una cosa che vale anche per me, eh, io mi chiedo: “c’è bisogno di quest’altra canzone?. Tutti dovremmo chiedercelo centomila volte prima di pubblicare. E invece vedo che a spron battuto si stampa e compone (ridiamo, ndr). Però non voglio fare l’anziano, vedo tanti ragazzi che si danno da fare e producono cose belle, che inseguono la bellezza. C’è Gabriele Esposito che suona benissimo, abbiamo scritto un pezzo assieme, che non so quando uscirà. E non ti cito quelli immediatamente dopo la mia generazione: la Maschera, Tommaso Primo…
Abbiamo già allargato il discorso a una scena internazionale. Non hai l’impressione che il pubblico attualmente confonda la musica con l’intrattenimento. Tutti questi concerti sold-out negli stadi, senza entrare nella polemica dei biglietti regalati: sono eventi musicali o sono spettacoli, come il circo?
Vasco è Vasco, però, ha sempre fatto i super show.
Elodie, Taylor Swift?
Pure all’epoca nostra c’erano i Take That. Penso che la musica abbia sempre avuto questa ambivalenza. Certo, risulta più difficile chiamare artisti dei performer, perché l’artista vive di urgenze, è sempre attento a dei valori che vuole mettere in evidenza, non scrive una canzone che sta con un piede di qua e un piede di là. Invece, spesso sento testi che ammiccano a una cosa ma non la dicono pienamente, poi l’artista si schiera da un’altra parte, ma cosa vuoi dire? Avere una poetica non significa essere coerenti, ma proprio “avere una poetica”, cioè fare una ricerca costante, sincera, vera. Ecco, la verità manca. L’artista è la continua ricerca di una verità, anche quando racconta la storia di un altro o una storia inventata. Non ho visto un concerto di Elodie, ma credo siano eventi in cui c’è una comunità e se c’è una comunione tra le persone allora diventa una grande festa e io comunque mi emoziono “appresso” alla gente che gioisce. C’è di contro che tutto un circuito di club piccoli che sparisce, perché qualsiasi artista fa quattro concerti all’anno per farli più riempirli il più possibile e non sessanta date come facevamo noi, pure a 100 € e giravamo tutta l’Italia, per portare un messaggio e non per scattare selfie. Purtroppo, con l’avvento dei social, la verità è diventata una cosa impossibile da ottenere.
L’impressione che ho tante volte è che buona parte del pubblico sia andato in determinati posti perché erano instagrammabili e non perché volevano ascoltare questa o quella canzone.
Però, di contro, Fifty Cent non è più venuto a piazza del Plebliscito, il concerto è saltato. Quindi, questi grandi eventi funzionano o non funzionano? Tra l’altro, leggo che spesso hanno venduto biglietti all’ultimo secondo a prezzi stracciati per riempire, cosa molto scorretta per chi ha pagato 300 € per un posto nel pit. Ma questa è l’industria, io non ne capisco, faccio l’artigiano.
Infatti, qualche giorno fa eri con Ben Harper, un altro artigiano. Una star mondiale che però continua a fare musica come la sente.
Sì, non ha mai perso la rotta.
Quindi è il segno che c’è comunque una speranza, non bisogna essere per forza di super nicchia per poter continuare un certo discorso artistico.
Eh sì, certo, però lui è americano, eh (ridiamo, ndr), non viene dai Quartieri, è un po’ diverso.
Beh, questo fa la differenza.
A parte che è Ben Harper, che fa un’altra differenza ancora, poi è “nu friscone”. Comunque mi è parso una persona bella, generosa. Abbiamo parlato, conosce Seb, hanno suonato assieme anni fa, gli ho regalato il disco. È stato bello suonare là, perché c’era un pubblico attento, ricettivo, chiaramente sopra i trent’anni, pochi ventenni. Veramente un bel Festival (Comfort Festival a Cinisello Balsamo, ndr), mi sentivo bene come a casa.
Ultimissima cosa, visto che hai dedicato l’album a Roberto De Simone, cosa ha significato per te e per la musica in generale, una figura come lo scomparso Maestro?
Ma guarda, De Simone era la più grande espressione del Santo Sud, perché metteva assieme la cultura nobile della nostra tradizione con quella arcaica, popolare; metteva in contatto mondi, una cosa che è difficile fare oggi, perché la tendenza è quella di unire il basso col basso o paradossalmente mettere l’alto in un rapporto col basso che lo trascina ancora più giù. Invece, Pino Daniele, Roberto De Simone, ma anche Avitabile, Gragnaniello, sono popolari, ma con una grandissima cultura musicale, espressiva, artistica, ancora capace di mettere in contatto i multistrati di questa Napoli. De Simone è sicuramente quello che ha tracciato la rotta.
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