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Paesaggio dopo la battaglia – Vasco Brondi

VASCO BRONDI- PAESAGGIO DOPO LA BATTAGLIA - CoverVasco Brondi, dismesso il progetto Le Luci della Centrale Elettrica dopo la chiosa di Terra del 2017, riaccende l’interruttore con Paesaggio dopo la battaglia. L’artista veronese di nascita ma ferrarese d’adozione, con la produzione di Federico Dragogna de I Ministri ed il tocco scientifico di Taketo Gohara, dà alle stampe un lavoro che sradica applausi infuocando i palmi. Per contenuti, per una gradevole idea di packaging (mi si perdoni l’accostamento ad un prodotto nel senso più materiale del termine), per i bonus allegati. Innanzitutto ben visibile dalle prime note il marchio di fabbrica rappresentato dalla consueta urgenza della scrittura che si tramuta, con un silenzioso schiocco di dita, in un fiume in piena, senza sfociare nell’ampollosità, restando essenziale e diretto come un pugno alla bocca dello stomaco. Buona idea il packaging, dicevamo. Il CD nasce con la forma di un libro ed è accompagnato da una sorta di diario di bordo, “Note a margine e macerie” , che sviscera le fasi della produzione, una finestra sul cortile interno di Vasco Brondi, intimo ed inquieto, popoloso per presenze e disapparizioni ancora ben ingombranti. L’esterno è una foto di Luigi Ghirri che ritrae in lontananza una vecchia Fiat Panda che commovente riemerge dopo la tempesta appena lasciata alle spalle. Il cielo grigio non chiarisce se la battaglia sia realmente terminata. E neanche le macerie che ancora fumano. Perchè “dopo la battaglia non c’è niente di quello che c’era prima, non si torna alla normalità, è un’altra vita”. Primo missile del disco è 26000 giorni, unità temporale ad indicare i 71 anni che rappresentano la vita media degli uomini. Un tempo mai sufficiente, che scatena l’emergenza del dover riempire gli occhi come brocche con quante più immagini e posti possibili. Da ubriacarsi, ché tutto termina senza sirene ad annunciare il rettilineo finale. I giorni, la sola cosa che abbiamo davvero. Che in fondo “visti dai satelliti siamo insetti lievi e provvisori”, animali con la folle tendenza a fare i nidi nei posti più impervi. Ci abbracciamo sorprende alle spalle come una granata atterrata a pochi centimetri dai propri piedi. Suono beat, come i versi che galoppano le linee elettroniche senza imbarazzo e senza peccato, salendo su un drone che dall’alto guarda un paese che “ha bisogno di gente piena di dubbi”. Ballabile, senza che la cosa mi provochi attacchi incontrollabili di labirintite, incomprensibilmente. Il ritornello riprende una poesia di Franco Arminio, “poeta paesologo” meritevole di ulteriore visibilità, e si completa con Sant’Agostino che incita, attuale, ad amare e fare quello che si vuole, senza aspettare. Secoli indietro nel tempo, capace di guardare millenni avanti. Gli abbracci, adesso più che mai simbolo delle privazioni degli ultimi tempi, che annientano le epoche, trasportando in una bolla dove non esiste altro che il momento. Cannonate di ricordi sulla Parigi di Città aperta, a fare da sfondo a velocità di crescita che portano in angoli differenti dell’universo. Ma certe affinità restano accese, anche se le latitudini fanno azioni sanguinose di disturbo, anche se i maestri un tempo erano gli stessi per entrambi ed ora rimangono solo telepatie accennate ed i rimpianti dei “sarebbe bastato”. Mentre una melodia docile interviene a placare l’agitazione generatasi nel cercare la pace e sgombra la scena da ogni potenziale rancore. La title track Paesaggio dopo la battaglia, che riprende a sua volta il titolo di un film di Andrzej Wajda basato sugli scritti di Tadeusz Borowski, deflagra quasi come una molotov con all’interno un incendiario inno nazionale al contrario, rimprovero sorridente ad un paese sguaiato, affranto, lacerato dalle divisioni, un’Italia “senza bandiere, porti chiusi in mezzo al mare, dietro un masso sempre pronta a resuscitare”. Mezza nuda è una fuga dalle trincee di un amore che ha sfidato, perdendo, le incomprensioni. Una fuga pianificata e sognata in Interrail e realizzata su un Interregionale, direzione Milano. Randagismi da mare aperto per evitare gli stagni, nudità intesa come esposizione, come trasparenza verso l’esterno. Epiloghi premianti, nonostante le cattive stelle a togliere luce, obiettivi centrati e ammirati da lontano attraverso il ricordo delle strade camminate insieme. Il guerreggiare continua poi con un furioso corpo a corpo in Due animali in una stanza, da ritenersi assolutamente uno dei pezzi migliori scritti da Brondi. Galassie emotive osservate tra un prima ed un dopo. Come quando cambia la scena tra un atto ed un altro di una pièce teatrale in cui l’aria che si respira fa ridere poco. Come pane raffermo che torna a fare rumore ed a graffiare in gola solo dopo essere stato reso quasi polvere. Mentre ti trovi di fronte ad un paesaggio che non è più come prima, stravolto completamente. E che per questo porta ad esultare più di quanto possa rattristare l’assenza di un profumo di antico. Dopo l’iniziale effetto spiazzamento ed i suoi tremori, perché “Evviva non è più come prima, forse è ancora meglio di prima”. A rendere pacifica l’idea che dopo ogni terremoto esiste solo la ricostruzione con le sue accelerazioni ed i suoi rallentamenti. Crepitio da falò in sottofondo accompagna Adriatico, cartolina tra chiari e scuri di un luogo che prima non c’era e che si staglia iconico nell’immaginario collettivo, con tonnellate di sabbia trasportata con i camion e la torbidezza delle sue acque basse sempre fino ai polpacci, le ubriachezze goliardiche ed una gradevole atmosfera da balera festante, impreziosita dalla presenza degli Extraliscio, orchestra allegra che fa da gradito ed azzeccatissimo ospite. Nel cranio si ricompattano memorie di venerdì sera spesi in Riviera, terra promessa dopo settimane sofferte da emigrante, oltre quindici anni addietro. Quando tutto era ancora tra le dita ed ancora non definito. Con la paura che l’assenza di contorni sarebbe stata per sempre, prima che i ritorni ricomponessero le fratture e ricoprissero i fori di proiettile. In Luna crescente un pianoforte come una sciabola introduce la sua lama lucente tra le scapole, per arrivare proprio dove si annida la nostalgia abbandonata lì, sull’ennesima sedia vuota lasciata dietro lo sterno. A sussurrare che in fondo, tra canottiere tenute come reliquie e domande restituite inevase sulle ali di una eco, basterebbe solo essere certi di “essere vivi contemporaneamente”. E quando sembra avviarsi la ritirata verso il riparo, ecco che esplode il colpo di bazooka più fragoroso dell’album. Chitarra nera. Un flusso di coscienza che fa nuotare, distesi sul dorso, nel lago tra palpebre e pupille, e che strofa dopo strofa avvicina ad un passo da una esondazione esiziale. Un tema da otto colonne e da nove in pagella. Dividere il sonno e la fantasia, come si dice dalle mie parti. E poi, senza volere e senza sapere, non avere più alcuna zona in comune tra i rispettivi cerchi, fino a sparire l’uno dall’altro, l’uno per l’altro. Senza poter ipotizzare che il tempo sarebbe poi finito, lasciando crettature nella pelle che non guariranno mai e che sarebbe rimasto solo il suono delle ultime accuse. Che le case circondariali avrebbero stretto troppo la gola, fino a rendere fantasmi timorosi anche di gridare. Le dita veloci sui manici di ieri, gli abbracci ed i saluti mancati di oggi, i crateri nello stomaco da domani. Storie di ragazzi cresciuti nello stesso posto nello stesso momento. Destinati a “non diventare perfetti mai, a non illuminare nessuno mai”, come angeli dalle ali di fango, chitarre nere vendute per dimenticare quello che avrebbe potuto essere e che invece non sarebbe stato. Pregando in questo requiem di rivedersi nella prossima vita, per ricominciare finalmente a salutarsi. A rendere tutto ancora più netto, lo splendido video diretto da Daniele Vicari, con una incredibile (nessuna novità in questo) interpretazione di Elio Germano. Il disco si chiude con Il sentiero degli Dei, conciliante ballata, unico pezzo in cui compare una chitarra acustica, che per ammissione dell’autore, è la prima posseduta di sempre, una Takamine da trecento euro con una crepa sul manico. L’ambientazione è quella post pandemica, in cui sono oramai saltati tutti i piani, tutto è scomposto a ribadire che anche due anime congiunte non sono altro che “due forme di vita sul terzo pianeta del sistema solare”.
Nell’ascolto di questo lavoro ci si sente come quelle cercatrici di perle giapponesi, che si calano in apnea negli abissi per poi riemergere con le mani piene, per riprendere una evocativa immagine illustrata da Brondi nelle sue Note a margine e macerie. La percezione che se ne riceve è che l’artista abbia lasciato cadere in terra molte cose, quasi come zavorre di cui privarsi, per vedere la mongolfiera su cui ha scelto di salire prendere quota più velocemente. Che dall’alto si vede tutto e meglio. Solo che poi all’atterraggio, alla fine del peregrinare, tutto sembra miniaturizzato, con gli squarci che ne conseguono. Sono trascorsi dieci anni da Per ora noi la chiameremo Felicità, epoca in cui scivolava in loop in un autoradio che rendeva enorme la Poderosa nel tragitto tra casa mia e la miniera. Tredici anni dopo l’esordio del progetto de Le Luci della Centrale Elettrica, fulgida espressione di quella provincia meccanica in una Emilia Paranoica, capace molto spesso di tenere a battesimo cantautori dall’indubbio talento, Vasco Brondi scolpisce un’opera davvero splendente, dalla genesi resa ancor più travagliata dal momento storico e partorita da una personalità capace di attraversare fasi di euforia e di più che proporzionali ripensamenti, riuscendo eroicamente a disinnescare le mine antiuomo degli autosabotaggi. Adesso Brondi preferisce non urlare. La garbata diplomazia del tempo gli ha accarezzato le corde vocali, consentendogli un parlato che scava e non viene scalfito nella sua intensità, nonostante i toni meno accesi degli esordi. A ricordare che sulla strada può capitare di indossare abiti di stoffe e colori così differenti da un tempo, senza cambiare connotati.

Credits

Label: CARA CATASTROFE – 2021

Line-up:

Vasco Brondi (Voce, Cori, Chitarra Acustica) – Federico Dagogna (Cori, Synth, Programmazione, Basso, Chitarra Acustica, Chitarra Elettrica) – Angelo Trabace (Piano) – Niccolò Fornabaio (Batteria e Percussioni) – Enrico Gabrielli (Clarinetto Basso, Sax) – Alessandro “Asso” Stefana (Basso, Harmonium, Omnichord) – Paul Frazier (Cori) – Imani Coppola (Cori) – Redray Frazier (Cori) – Rodrigo D’erasmo (Violino, Synth Su Mezza Nuda) – Gabriele Lazzarotti (Basso Su 26000 Giorni, Mezza Nuda, Chitarra Nera) – Mauro Refosco (Percussioni Su 26000 Giorni, Ci Abbracciamo, Città Aperta) – Daniel Plentz (Percussioni Su Luna Crescente) – Extraliscio (Cori, Clarinetto Ed Orchestra Su Adriatico)

Tracklist:

  1. 26000giorni
  2. Ci abbracciamo
  3. Città aperta
  4. Paesaggio dopo la battaglia
  5. Mezza nuda
  6. Due animali in una stanza
  7. Adriatico
  8. Luna crescente
  9. Chitarra nera
  10. Il sentiero degli dei


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