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We’re New Again – Makaya McCraven

Makaya McCraven
No matter how far wrong you’ve gone
You can always turn around

Tornare a incidere un album dopo 16 anni, dopo due arresti per possesso di droga, due volte in carcere, per tre e poi quattro anni. Ritrovare la lucidità, la forza, l’ispirazione e il coraggio di redimersi e ricominciare, dichiarando al mondo I’m new here. Speranza stroncata da una morte improvvisa appena l’anno seguente.Oggi quella speranza si rinnova, nel decennale della pubblicazione dell’album testamento di Gil Scott Heron, grazie al produttore  di allora Richard Russell, della XL Recordings, che ha contattato il batterista e compositore d’avanguardia, Makaya McCraven. Forte del successo dell’album Universal beings (2018), col quale si è imposto come una delle personalità più rilevanti dell’attuale scena jazz statunitense, McCraven ha accettato l’ardua sfida di reinterpretare il lascito di Scott Heron, dando corpo a We’re New Again – A Reimagining by Makaya McCraven. Già, immaginare. Attraversare un’opera compiuta in una dimensione onirica, inventando liberamente scenari e soluzioni come nelle architetture degli strati profondi del subconscio di Inception. Una riscrittura che plasma e ricontestualizza parti originali, principalmente quelle vocali e insostituibili del poeta, che si caricano così di nuovi connotati e sfumature. E il primo segno di questo capovolgimento sta nell’aver abolito il fraseggio tormentato di Special Tribute (Broken Home Pt.1). Minimale e maestosa nella sua semplicità, sgorgante da un bordone sinistro e annunciata da rivoli trillanti e ansiogeni, quella melodia ha marcato di un fuoco romantico l’ultima prova di Gil Scott Heron. Rinunciare a quel distintivo è un atto di coraggio del batterista che veste il brano di un’elettronica rarefatta di lievi loop e lascia al centro di una scena vuota la sola voce profonda di Gil, nera come il buio pesto. Solo un breve accenno, sul quale tornare con rapidi flash che costellano l’album, come coordinate di un concept, per poi dischiudere i vapori orientali di I’m New Here. L’asciutta ballata acustica originale acquista un brio andate con la ritmica inconsueta e asimmetrica di Makaya McCraven, come in sinuoso movimento tra i paraventi e gli ombrellini variopinti di una cerimonia del thè nipponica, solcata da risvolti malinconici di vivide luci che si riflettono sulla chitarra immaginifica di Jeff Parker (che condisce di miele profumato e saporito ogni nota che suona), sobbalzano nell’arpa esotica di Brandee Younger e riecheggiano nel coro soffuso che raddoppia sullo sfondo il canto addensato di Scott Heron. Running raddoppia il ritmo asfittico dell’originale con i campanelli di Ben Lamar Gay e si infiamma di groove col basso ossessivo di Junius Paul, mentre un semplice interludio, la conversazione in presa diretta di Blessed Parents trasfigura in un’esplosione free jazz, che ricorda le session primordiali di Ascension di Coltrane, da cui ricadono come lapilli le note del sax di Fred Jackson. Il blues sporco e sintetico di New York Is Killing Me, giocato sul ritmo continuo di un battito di mani in tensione minimalista, qui arriva direttamente al dunque in una tirata di jazz urbano, un fiume in piena di ritmi latini della batteria, di spasimi tribali del basso, di accenti martellanti del diddley bow di Ben Lamar Gay. Come sul palco di un teatro dell’assurdo che pare stia per crollare sugli astanti da un momento all’altro, tra bassi lunatici, le tastiere lamentose di Greg Spero e un tempo ansioso di McCraven, va in scena il reading di People Of The Light col testo visionario e misterico di Your soul and mine e il suo terrificante annuncio di morte “So if you see the Vulture coming / flying circles in your mind / remember there is no escaping / for he will follow close behind“. Un fraseggio retto da un flauto pimpante, che si chiude su un contrabbasso slabbrato memore di Jimmy Garrison, sfocia nel loop compulsivo di Where Did The Night Go e il suo ritmo spezzato e irregolare. Una campionatura del piano suonato dallo stesso Gil Scott-Heron nell’album originale diventa un esotismo alla Sakamoto in I’ll Take Care Of You, prima che il ritmo corposo prenda il sopravvento con quella cassa martellante e le rullate che si frantumano nell’incedere sensuale di un soul avvolgente, di voce rotta d’amore ed echi rimbalzanti come gocce di pioggia. La dichiarazione d’amore collide col ritmo sincopato di un’altra dichiarazione di segno opposto, di totale autonomia anarchica e indipendenza: “If I hadn’t been/ As eccentric/ As obnoxious/ As arrogant/ As aggressive/ As introspective/ As selfish/ I wouldn’t be me/ I wouldn’t be who I am“, in definitiva I’ve Been Me. Una dichiarazione che suona tanto più malinconica all’attacco di This Can’t Be Real, che riprende il soul disperato dei primi album di Scott Heron, pescando nei ricordi luccicosi di un sogno sconnesso come frasi strozzate, fatte di parole impronunciabili, troppo forti, troppo dolorose, troppo private. In fondo Gil potrebbe essere anche un silenzioso Piano Player, se non fosse che un mondo di “lonely men and no love, no god” impone al poeta la parola. Una parola graffiante e spietata come il cupo riff, di vibrati distorti e bassi stoppati, che fanno di The Crutch un’ipntoica e claustrofobica jam funky, che sfocia nell’ultima oppiacea apparizione del poema iniziale Guided (Broken Home Pt.4), trasognato e ipnotico intreccio di chitarra, arpa e vibrafono, suonato dall’ottimo Joel Ross. Nella versione di Scott Heron, con un allucinato Damon Albarn alle tastiere, Me And The Devil era tra i primi colpi, sparata per stravolgere, grazie alla sua grezza elettronica, il blues rurale di Robert Johnson. Qui è chiamata a chiudere l’album con ritmo da drum’n’bass, fiati orchestrati nel funky (che citano triturandola l’intro di Peaches en Regalia di Frank Zappa) e la chitarra, stavolta hendrixiana, di Jeff Parker, ruvida e metallica quanto basta per un triplice omaggio al blues delle origini, alla psichedelia del mancino di Seattle e al timbro acido di Gil Scott Heron. Non si poteva sperare in finale migliore.

Credits

Label: XL Recordings – 2020

Line-up:
Makaya McCraven (Bass, Drum Programming, Drums, Guitar, Keyboards, Percussion, Producer, Vocals Background) – Ben LaMar Gay Diddley (Bow) – Tiona Hall (Vocals Background) – Michelle Hutcherson (Vocals Background) – Fred Jackson (Saxophone) – Kim Jordan (Vocals) – Jeff Parker (Guitar, Percussion) – Junius Paul (Bass, Percussion) – Joel Ross (Electronic Vibes) – Gil Scott-Heron (Composer, Piano, Vocals) – Greg Spero (Keyboards, Piano, Synthesizer) – Tyria Stokes (Vocals Background) – Brandee Younger (Harp)

Tracklist:

  1. Special Tribute (Broken Home Pt.1)
  2. I’m New Here
  3. Running
  4. Blessed Parents
  5. New York Is Killing Me
  6. The Patch (Broken Home Pt.2)
  7. People Of The Light
  8. Being Blessed
  9. Where Did The Night Go
  10. Lily Scott (Broken Home Pt.3)
  11. I’ll Take Care Of You
  12. I’ve Been Me
  13. This Can’t Be Real
  14. Piano Player
  15. The Crutch
  16. Guided (Broken Home Pt.4)
  17. Certain Bad Things
  18. Me And The Devil

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