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Il ponte di luce tra Dublino, Reykjavík e Napoli: intervista a Massimo De Vita (Blindur)

FOTO_BLINDUR_ 7833 copiaUn concerto di Damien Rice fu galeotto. Così abbiamo scoperto la musica dei Blindur. Ci siamo talmente innamorati che abbiamo voluto intervistare subito il talentuoso Massimo De Vita che ci ha regalato tanti anedotti di questo pluripremiato progetto entrato di diritto nella cinquina finale del premio Tenco.

“Ora che ho perso la vista ci vedo di più?” da Nuovo cinema Paradiso di Tornatore; “La vita contemporanea, all’apparenza così piena di luce (in tutti i sensi), contiene in realtà vaste zone d’ombra, dove solo la letteratura e le arti sono in grado di penetrare“, sono le parole di Corrado Augias in Leggere. Partendo da queste due citazioni vorrei approfondire il concept della luce che è alla base del duo, penso al nome del progetto e alla luce delle “piccole cose della vita” come i sogni, il viaggio, i tempi della scuola, l’amico di sempre di cui si parla nelle vostre canzoni…
Hai fatto due citazioni meravigliose, una più bella dell’altra e molto vicine a quello che penso io. L’idea di questa diversa percezione della cecità l’ho incrociata per la prima volta proprio in Cecità di Saramago, deve viene descritta come un tutto bianco e non un tutto nero come si può pensare. La mia situazione non è assolutamente di vuoto e buio totale. Per me, come ho spiegato in occasione del concerto di Damien Rice, è stata un’occasione di esplorare una dimensione diversa. Diciamo che nella disgrazia delle volte si trovano delle risorse e non dei limiti. In Blindur io e Michelangelo abbiamo provato a tradurre questa situazione. L’artwork del disco si basa su due massime manifestazioni della luce: la prima sostanzialmente rappresenta quella situazione in cui quando si viene sottoposti ad una grossa fonte di luce si viene accecati e compaiono quei pallini che abbiamo scelto per comporre la parola Blindur in breil sulla copertina del disco, mentre nel disco abbiamo scelto l’aurora come massima manifestazione della luce in natura dove diventa qualcosa di superemozionale, di colore ed elettricità e che per vederla bisogna essere in una condizione di buio totale. Uno scherzo della natura, la luce si esprime al meglio quando è totalmente assente. Quindi un qualsiasi limite, una qualsiasi esperienza dolorosa che potrebbe sembrare negativa in realtà diventa un trampolino di lancio, una costante sfida con se stessi. Questa condizione mi dà l’idea di avere una frontiera geografica e un istinto a superarla che si mostra nell’idea delle piccole cose che hai notato tu, come appunto il viaggio, le sfide del futuro, le questioni aperte con il passato e le assenze da esorcizzare.

Come è nata Aftershock?
Aftershock è stata ispirata da Dublino, seconda nostra città-casa dopo Napoli. Ci siamo stati molte volte. Per lungo tempo abbiamo fantasticato di trasferirci a Dublino. E una notte che si era là per dei concerti abbiamo compreso che Dublino era una di quelle strade che non si sarebbero mai realizzate. Poi c’è il fatto che sono andato via da Dublino sempre con voli notturni e quindi mi è sempre sembrato di scappare, un po’ come quando scappi dal letto della donna che ami mentre lei dorme, questa cosa un po’ vigliacca è alla base del pezzo, è come se quella notte alla fermata dell’autobus per andare all’aeroporto mi sono immaginato che Dublino mi dicesse: guarda che mi sono accorta che tu stai andando via come tutte le altre volte, mettiamo i puntini sulle i. Questa è stata proprio la scintilla primordiale per la nascita del pezzo, ovviamente si sono incrociate anche esperienze personali di altro tipo. Aftershock è comunque la canzone di tutte le cose che si potevano fare e che poi non si sono fatte. E’ sulle famose strade che non hai scelto ai bivii della vita.

Partendo da Solo Andata, cos’è il viaggio per te?
Possono togliermi tutto, anche la musica, ma non il viaggio. Per me è la quintessenza della vita. Lo spostarsi, per viaggi personali, per concerti, per andare a trovare qualcuno, è una condizione fondamentale per l’arte, non mi sto inventando nulla. Si parlava appunto di poeti erranti. Diciamo che l’arte non è molto sedentaria.

Come siete riusciti a creare questo ponte tra la musica nordica europea, la tradizione cantautorale folk italiana e anglosassone?
E’ stato tutto semplice e molto naturale. Mescolare più generi dipende dai nostri svariati gusti. Michelangelo ci ha messo tutto il suo amore per il country e il folk americano. Io sono più vicino alla musica irlandese, inglese. Poi per esperienze precedenti lui veniva dal blues ed io dal punk. Quando ci siamo incrociati eravamo tutti e due mossi da una passione per queste nuove strade del post-rock e dell’elettronica. Quindi è stata una sfida superare le barriere concettuali, quando ti vedono con il banjo e la chitarra subito ti etichettano folk, ma Blindur è assolutamente un progetto pop perchè ci piace la forma canzone, ricerchiamo sempre la melodia. Diciamo che nella canzone pop proviamo a miscelare i nostri riferimenti che possono essere i Sigur Rós, i Tre allegri ragazzi morti e la musica tradizionale irlandese, sfruttando l’effettistica che è in continua evoluzione e che per noi è una continua sfida.

E quindi in questa sfida siete riusciti ad incrociare le strade di  Birgir Jòn Birgisson dei Sigur Rós?
Siccome la nostra dimensione artistica ideale era quella delle atmosfere dei Sigur Rós, abbiamo cercato di metterci in conttatto con l’entourage che collaborava con loro. Prima abbiamo scambiato mail, poi ci siamo conuscuti, a furia di bottiglie di vino italiano è nata questa bella amicizia, abbiamo collaborato prima per delle cose e poi per il progetto Blindur. E’ stato bello intersecare questi due fonici, da un lato Birgir Jòn Birgisson e dall’altra parte Paolo Alberta, un fonico che ha lavora con grandissimi artisti italiani come Negrita, Ligabue. Diciamo che io e Michelangelo abbiamo fuso i due mondi musicali nella scrittura, mentre nel suono ci hanno pensato loro due. Siamo molto soddisfatti del risultato.

Com’è l’Islanda? Quegli spazi aperti riempieno l’anima?
Sì! L’islanda è uno dei posti più incredibili che ho visitato. Negli ultmi dieci anni ho viaggiato come un pazzo e l’Islanda mi è rimasta dentro. Sembra un altro pianeta. Immagina che quando siamo andati a suonare una volta abbiamo percorso tipo 400 km senza mai incontrare una macchina in direzione opposta. E’ un posto dove la natura è esuberante e ti senti veramente ospite. E’ un posto magico che ti ridimensiona. Il modo di vivere islandese è molto condizionato da questa natura imprevedibile. C’è un modo di pensare più leggero. Per loro non ha senso progettare un ponte nel modo più costoso possibile perchè tanto se il vulcano si sveglia non c’è scampo che duri.

Questo modo di vivere la fatalità li avvicina un po’ a noi partenopei…
Sì, per assurdo gli irlandesi e gli islandesi sono tra i popoli del Nord Europa che si avvicinano di più a noi. Ed è per questo che forse mi trovo bene con loro.

Di tutti i pezzi che avete scritto qual è quello di cui siete più orgogliosi?
Forse Lunapark. Per me è particolarmente speciale. E’ stata quella su cui abbiamo sudato di più. Di solito noi partiamo prima con il proporre il brano dal vivo e poi lo incidiamo quando ci accorgiamo che la resa live risulta funzionare. Questo brano prima di raggiungere la sua veste finale è stato presentato in diverse forme che per molto tempo non ci hanno mai soddisfatto. Alla fine l’abbiamo incisa nel disco perchè è una canzone che ci piaceva tanto e che doveva esserci. Poi c’è Foto di classe da cui tutto è cominciato e che ci ha permesso di vincere sei o sette premi in due anni. E’ stata la canzone che abbiamo portato in giro in Europa.

Quindi si può portare in Europa la canzone italiana?
Funziona tanto e la più grande soddisfazione è quando dopo il concerto vengono e ti ringraziano perchè hai cantato in italiano. Questa è una mia personalissima battaglia. Spesso si pensa che cantare in inglese dia più possibilità di cantare all’estero ed invece ti posso dire che noi abbiamo ottenuto tanto da questo punto di vista all’estero proprio cantando in italiano. Ed inoltre spesso mi diverto con il pubblico dicendo che ci applaudono perchè tanto non hanno capito nulla di quello che abbiamo cantato e che magari gli abbiamo detto parolacce per cinque minuti e loro non l’hanno capito.

Ed ora veniamo alla serata di Damien Rice a Napoli. Come vi siete incrociati? Ci puoi raccontare qualche aneddoto di quei giorni, di quella sera, l’aftershow? Damien si è innamorato di  Napoli…
Circa  un anno fa, dopo un concerto all’Orto Botanico, ero con degli amici cantautori a Piazza Bellini. Stavo per andare via perchè faceva un caldo tremendo e volevo scappare a casa, poi arriva un messagino sul cellulare di uno di noi. Una nostra amica comune ci comunicava che c’era Damine Rice fuori al Kestè, locale del centro. Io pensavo che fosse uno scherzo. Alla fine mi convincono ad andare la promessa di offrirmi da bere in caso di scherzo, appunto. Siamo arrivati là ed effettivamente era seduto ad un tavolo e tutti stavano a chidergli la foto, l’autografo. Io mi sono avvicinato solo per scambiare quattro chiacchiere. Abbiamo scoperto di avere tanti amici in comune a Dublino. Quindi, chiacchierando chiacchierando, è venuta fuori l’Islanda. Ed anche in quella terra abbiamo scoperto di avera altri amici in comune. Mi ha chiesto l’indirizzo email per restare in contatto. E mi ricordo che quella sera avvisai subito Michelangelo: guarda che se ti arriva una mail di un Damine Rice non la buttare, è proprio lui, non è un fake. Poi ci siamo incontrati in Islanda, ci siamo scritti regolarmente via email, è nata una bella corrispondenza fino ad una mail dove mi diceva che si era innamorato di Era de Maggio e che però si sentiva troppo ridicolo a cantarla in napoletano nella sua data al Teatro Acacia, così mi ha proposto di cantarla al posto suo. Ovviamente ho riletto il messaggio una decina di volte prima di rispondergli. Gli ho detto di sì. Lui subito mi ha chiesto di registrarla a volo con il cellulare ed inviargliela. Gli è piaciuta tantissimo. Il resto lo abbiamo deciso la sera stessa del concerto. E cosi è nato il pezzo improvvisato. Dieci minuti prima del concerto, eravamo nei camerini e mi ha chiesto addirittura di aprire la serata. Sono rimasto spiazzato. Mi ha anche preso in giro, dicendosi sollevato che qualcuno rompesse il ghiaccio al posto suo!

Quel pezzo improvvisato avete pensato di registrarlo nel prossimo disco?!
Dietro quel pezzo c’è questo aneddoto. Mi ha chiesto di consigliargli dei posti belli da visitare a Napoli. Ho iniziato ad elencargli una serie di posti e lui ad un certo punto mi ha fermato: “scusa se sono indiscreto, ma tu questi posti non li vedi, come fai a dire che sono belli?”. Gli ho speigato il mio punto di vista. Quando passeggi per un posto ad occhi chiusi, percepisci la realtà che ti circonda sotto un’altra dimensione, quella olfattiva, quella sonora, quella tattile, si amplifica la percezione. Penso che la bellezza non sia ad una dimensione e che abbia tante dimensioni per quanti siano i sensi. Ne è stato colpito e ha voluto che ne parlassi durante il concerto. Mi sono rifiutato perchè far parlare di cecità ad un non vedente sa sempre di molto retorico, cerco sempre di evitare. Non voglio cadere nel vittimismo retorico.

Hai ragione, la bellezza ha più dimensioni…
Sì, diciamo che è come L’Infinito di Leopardi. Hai una siepe davanti, un limite e l’unico modo per superarlo è l’immaginazione. Ma questo penso sia una condizione uguale se una persona è chiusa in una stanza e può solo immaginare il mondo che sta fuori. La condizione di non vedente non è un limite ma una sfida di amplificazione sensoriale.
Morale della favola, Damien insisteva sul voler toccare questo tema ed allora io ho suggerito un’alternativa. Inscenare con le ballerine nel buio più assoluto questo cercare le cose con le mani mentre io e Damien ci dovevamo cercare musicalmente… ed è uscita fuori una parentesi di una potenza inaudita.

Quali sono le cinque canzoni della tua vita, quelle che ti hanno permesso di superare momenti brutti o che sono legate a dei bei momenti?
Cavolo è una domanda tostissima. Ci dovrei pensare una marea di tempo. Sicuramente c’è Glosoli dei Sigur Rós che mi ha aperto un universo. Poi a suo modo Occhi bassi dei Tre Allegri ragazzi morti che mi sono trovato sempre tra i piedi e mi ha sempre condotto a cose belle, tipo suonarla ad un concerto a Milano che poi mi ha portato all’etichetta La Tempesta. Anime salve di De Andrè e Fossati, quel testo l’avrò citato tantissimo negli ultimi dieci anni. Strawberry Fields Forever dei Beatles, per dirne una su tutte dei Beatles. E poi tiro fuori lo scheletro dall’armadio, devo inserire un brano di Jovanotti perchè da piccolo ero un grande fan. La canzone è 30 Modi Per Salvare Il Mondo che chiude Il quinto mondo, forse tra i dischi meno riusciti di Jovanotti. Ha un testo che se l’ascolto ancora oggi mi apre in due.

Album – streaming

Foto di classe – video

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