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Quando il cantautorato sperimentava: intervista a Mox Cristadoro

Mox_Cristadoro_in1Sin dal primo ascolto, il disco d’esordio del progetto Christadoro ha suscitato la nostra attenzione. Non è un banale disco di cover, non è una semplice rivisitazione in chiave rock di brani della tradizione cantautorale italiana del secolo scorso. Ci ha colpito quell’idea di riscoprire il Lucio Dalla più sperimentale, l’Antonello Venditti più ardito e più politico, l’Enrico Ruggeri (Decibel) più sociale e ribelle. Questa riscoperta del cantautorato che sperimentava e nello stesso tempo era socialmente e politicamente schierato. Oggi non è rimasto quasi nulla di quei tempi, soprattutto in quegli autori che hanno spesso venduto l’anima al diavolo mainstream. Per noi è giusto tornare indietro a quei tempi e per questo abbiamo voluto intervistare Mox Cristadoro (ex-batterista di La Crus, Cristina Donà, Crash Box), ideatore del progetto.

Perchè rispolverare in chiave rock la grande scuola autorale degli anni settanta?
In realtà, nell’interno copertina del disco riporto un’affermazione del grande Richie Havens (colui che aprì le danze al Festival di Woodstock), risalente al ’69, che sostanzialmente recita: “interpreto solo canzoni che mi emozionano”. Il filo conduttore legato alla nostra scena cantautorale mi ha fatto quindi scegliere brani che per vari motivi potessero rappresentare al meglio la mia indole. Mi piace dire “canzoni che avrei voluto scrivere io, se mai ne avessi avuto la capacità”. Ma non mi è rimasto che un indomabile desiderio di divulgazione e di ferrea volontà di storicizzazione. Rimane ovvio che un “album tributo”, come a tutti gli effetti è questo esordio, nasce dall’amore scaturito dalle opere selezionate, però fortunatamente, in questo caso, le carriere artistiche degli autori prescelti partono tutte tra gli anni 60 e i 70 (ad eccezione di Gaber che calca le scene già a fine 50), quindi da un periodo storico potente e “creativo” per definizione, in quasi tutti i generi musicali, anche in Italia. Sfruttare quel determinato repertorio dunque lo riterrei pertanto un fatto inevitabile. Come inevitabile, in quest’ottica, la chiave interpretativa applicata ai brani: banalmente connessa agli abituali ascolti della mia vita, ove il Rock di matrice inglese dei 70 ricopre lo spazio più ampio. Il range temporale delle canzoni nel disco va dal 1973 de L’operaio Gerolamo al 1991 de L’Ombra della Luce.

In molti brani c’era già una certa attitudine alla sperimentazione cantautorale, dove testi per lo più politico-sociali erano veicolati tramite strutture-canzone per nulla pop. Questa natura comune dei brani ha forse indirizzato facilmente gli arrangiamenti più rock di questo vostro disco d’esordio. Come si è sviluppato il processo di rielaborazione sonica dei vari brani? E’ stato frutto d’improvvisazione in presa diretta o figlio di lunghe elaborazioni?
Quanto affermi è verissimo: basti pensare a L’Operaio Gerolamo, concepita con una struttura meravigliosamente psichedelica e apparentemente indefinita, mentre dosi di improvvisazione sembrano comparire anche ne Il sosia. Così come Lo stambecco ferito e L’ombra della luce nascono interamente prive di strumenti elettrici e batteria, mentre L’ultimo spettacolo è una sorta di mini suite progressiva. Persino Solo vive di arrangiamenti orchestrali pomposi con dinamiche fenomenali. Proprio questo è stato un forte stimolo nel proporre le nuove impalcature che sono partite da alcune mie idee e che, in un’esigua manciata di prove, abbiamo sviluppato tutti insieme (notare che i componenti dei Christadoro vivono tutti in cinque luoghi diversi). Poi un’ampia parte del lavoro di arrangiamento è stata realizzata direttamente in sede di registrazione, con Livio Magnini che ha partecipato al gioco di squadra, in veste di produttore artistico, mettendo a punto il suono generale.
Vorrei comunque evidenziare quanto le dosi di drammaticità, oltre alla componente esistenziale delle canzoni scelte, siano rimaste invariate o addirittura ulteriormente enfatizzate nelle nostre versioni, con sonorità di matrice oscura… Per il resto aggiungo solo che l’incisione rispecchia un’attitudine abbastanza “live”, ad esempio io ho eseguito un numero limitato di sessioni di batteria e tutta la procedura in studio è stata condotta come si usava qualche decennio fa.

Ho trovato Lo Stambecco ferito tra le cover più riuscite del disco. Cosa pensi a riguardo?
Hai fatto centro. Svelerò infatti che l’intero concept sviluppato col progetto Christadoro sia proprio partito da un illuminante (ri)ascolto di quel brano pazzesco, e sempre attualissimo, del ’75. La mia associazione a un certo dark sound è stata istintiva, poi le percentuali di rumorismo e psichedelia (tengo a sottolineare che tutto è prodotto da strumenti veri) si sono aggiunte nel corso dei lavori. Per ogni canzone, nella mia testa, e con un ottimale coordinamento tra i musicisti, le operazioni di riarrangiamento si sono definite man mano, pur partendo da riferimenti ben precisi, che è divertente scoprire e pertanto mi guarderò bene dal rivelare. Ad ogni modo, ritengo Lo stambecco ferito un pezzo topico.

In questi brani cosa è confluito delle vostre procedenti esperienze musicali dai La Crus ai Santa Sangre, passando per i Finisterre e La Maschera di cera?
Erano diversi anni che con Fabio Zuffanti (che ritengo il mio gemello in termini di affinità artistiche e attitudinali) ci si riprometteva un’occasione per collaborare in un progetto, finché nell’estate del 2015 gli comunicai la mia intuizione, ovviamente accolta con immediato interesse. Parallelamente a Fabio, che sarebbe stato previsto in ogni caso, pensavo a un altro amico di vecchia data, Andrea “Mitzi“ Dal Santo, cantante dotato di particolari capacità interpretative, da cui non si poteva prescindere per l’importanza della voce in un tipo di repertorio decisamente impegnativo come quello che stavo scegliendo. Adorando il gusto e l’estro chitarristico di Pier Panzeri, che avevo notato sul palco nei più recenti concerti del Biglietto Per l’Inferno, e stimando Paolo “Ske” Botta dei Not A Good Sign, altro musicista di livello considerevole, ho assemblato una band miracolosa. É inevitabile che ognuno di noi nel proprio operato risenta delle sue esperienze trascorse e le riutilizzi anche inconsapevolmente. Su Fabio (Zuffanti) non posso esprimermi con precisione, per quanto anche il suo modo di suonare sia abbastanza identificabile e caratteristico. Io, personalmente, se devo trovare una radice del mio passato da cui derivi con una certa evidenza filologica questo nuovo lavoro, indico senza dubbio l’album In Absentia Christi uscito nel ’95, a firma MonumentuM. Quello resta un ambiente sonoro che ancora appartiene molto al mio modo di vivere la musica.
Coi La Crus sussisterebbe un legame meramente letterario, connesso al cantautorato, ma sul piano musicale poco a che vedere. Per esempio le mie esecuzioni sono grezze e umorali, mentre nei grooves tecnologici di Cesare Malfatti il dominio è perlopiù computerizzato. Per non parlare di una, a volte macroscopica, differenza sull’uso di certe chitarre, nonchè della vocalità di Dal Santo, che arriva indubbiamente da ascolti antitetici.

Cosa signifca realizzare una cover di un brano?
Hai il punto di vista di un compulsivo ed esigente consumatore di musica: una “cover” assume un senso solo se frutto di reinterpretazione, anzi più si distanzia dal vestito originale, meglio è. Risuonare pedissequamente l’opera di qualcun altro è un mestiere diverso; forse ha una sua funzione divulgativa, specie in ambito di musica classica; altrimenti un “tributo” a un artista, per risultare interessante e non sostanzialmente inutile, deve far emergere la personalità di chi sta eseguendo. Anche col serio rischio possa far inorridire chi ascolta.

La musica cantautorale italiana è cambiata profondamente rispetto a quegli anni. Gli stessi autori di quei brani hanno direzionato la loro scrittura in maniera diversa…
Prescindendo dal genere, non credo di passare per anziano nostalgico affermando con certezza che svariate decadi fa era già stato scritto quasi tutto, per altro con una qualità artistica inarrivabile. Questo non significa certo che bisogna fermarsi, ma magari ricercare nel passato, per poi riflettere ulteriormente prima di (ri)proporsi nuovamente con brani annacquati o privi di passione e significato. Diciamo che dai primi anni 80 in avanti abbiamo assistito all’inesorabile declino di certi stili, in favore di altri sempre adeguati ai tempi: tempi in cui cultura, spessore o bellezza melodica si stavano involvendo in spensieratezza (da intendersi come “disinteresse”), se non addirittura squallore. Mai fare di tutta l’erba un fascio, però… sarebbe indice di cecità.

Avete avuto la possibilità di far ascoltare queste cover agli autori ancora viventi, come Venditti, Battiato, Baglioni e Ruggeri?
Ho fatto in modo che tutti i coinvolti ricevessero una copia del disco, ma alcune credo non siano ancora giunte a destinazione.
Comunque, Antonello Venditti ha regalato l’impagabile soddisfazione di telefonarmi lo scorso dicembre per esprimere il suo entusiasmo sul nostro lavoro, dimostrando di essere umanamente, oltre che artisticamente, immenso. Visto quanto tengo a quel pezzo, questo suo gesto ha ripagato in un attimo ogni sforzo impiegato per la faticosa realizzazione del progetto.

Parliamo dell’inedito di F. Mussida?
Approfitterei della domanda per dire che i quattro meravigliosi ospiti partecipanti al disco, in completa amicizia, non sono stati scelti a caso.
Pilly Cossa è il compositore principale delle musiche di uno degli album che ho preferito nella mia esistenza: Biglietto per l’Inferno (del ’74). Garbo possiede il miglior timbro vocale che si possa pensare di ottenere per l’introduzione recitata de Il Sosia.
Zeno Gabaglio è un violoncellista di preparazione classica, nonché produttore artistico molto all’avanguardia e titolare di rilevanti progetti di natura sperimentale. Infine mi verrebbe da dire che Franco Mussida è solo Franco Mussida! Un leader fondatore della rock band italiana da sempre più celebre del Globo, allontanatosi da questa leggenda musicale dopo mezzo secolo di frequentazione, offre il suo primo intervento in un disco nell’esordio dei Christadoro! In verità, al di là dell’indubbio vantaggio di tale regalo, desideravo interpellare Franco perché è uno tra i grandi chitarristi che amo di più, capace di offrire sempre quell’intensità non comune che bisogna ritrovare nell’arte, ancor prima che nella sola musica. E lui, rimasto letteralmente rapito dal brano L’ombra della luce, ha deciso di fornire una sua introduzione acustica dilatata e introspettiva (l’unica chitarra classica presente in tutto l’album), senza farsi pregare.

Christadoro resterà un progetto di cover o svolterà anche in un progetto di inediti?
Onestamente di capitoli nel mio “cantiere” ce ne sarebbero diversi e l’idea che questo gruppo possa avere un’attività continuativa ancora per un po’ rappresenta un bel sogno. Per ora mi sento solo di dire che sia prematuro rivelare nuove eventuali iniziative, anche per scaramanzia. Rispondendo meglio alla tua domanda, dopo essersi confrontati con la scrittura di veri e propri mostri sacri, la consapevolezza di non poter produrre facilmente del materiale di pari qualità è oggettivamente reale. Mai dire mai, comunque.

Cinque brani di quegli anni che potevano entrare in questo disco?
Qustione piuttosto difficoltosa. Sempre restando rigorosamente nel medesimo ambito, nell’imbarazzo della scelta, improvviserei: Scavando col badile di Camisasca, La mia mente di Sorrenti, Funerale a Praga di Faust’O, magari La pianta del tè di Fossati, E’ stata tua la colpa o Feste di Piazza di Bennato, Canzone quasi d’amore di Guccini ma forse, anche se non è un autore di testi, andrebbe inserito un brano di Radius come Celebrai o Coccodrilli bianchi. In ogni caso rimarrebbero esclusi dei nomi enormi, come Rocchi, Graziani, Pelosi, Branduardi, Battisti, Gaetano, De Andrè e i primi periodi di Cocciante, Manfredi, Finardi, Camerini, Califano, De Gregori… e non è bello.

Album – streaming

Lo Stambecco Ferito – Video Streaming brano

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