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Non sai quanto mi manchi e forse c’è di più: Pino Daniele

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Non sai quanto mi manchi e forse c’è di più
Un anno senza Pino Daniele.

Un anno e qualche mese.
A ripensarci adesso non sembra nemmeno tanto, non c’è quel senso di Passato.
Sembra quasi non sia morto nessuno, forse perché in certi universi la voce ci sopravvive. Perché forse, spesso, davvero rimane una traccia sulla sabbia del tempo.
Perché, molto meno spesso, la musica non è un amante senza cuore.
O forse perché la musica buona non muore mai, vallo a sapere.
Se volessimo essere spudoratamente critici, e magari anche cattivi, allora potremmo dire invece che la musica di Pino Daniele era invece morta da tempo, che il cantautore napoletano aveva perso da anni il suo smalto, come diceva una sua canzone “come si cambia, è vero, e poi non te ne accorgi più“.
Eppure anche questo sarebbe un giudizio dettato dalla parzialità o dall’eccessivo amore.
Il punto è che di Pino Daniele si è detto tanto ma “tanto” resta sempre poco, perché non si può racchiudere in pochi link gettati su uno schermo la carriera di un artista simile, ciò che culturalmente ha rappresentato, ciò che ha significato la sua voce per chi lo ha amato.
Forse nessuno prima di Pino Daniele è riuscito a incarnare meglio i contrasti della città di Napoli e dell’esserne un suo figlio. Quel suo essere metà poeta e metà malinconico cantante, un po’ galantuomo e un po’ bottegaio, eccelso chitarrista jazz prestato al pop, serio ma mai serioso eppure scanzonato ed ironico, volgare nell’accezione di volgo e al tempo stesso romantico, tutto questo essere nero a metà ha fatto sì che, negli anni a cavallo fra i primi anni ’80 e la fine dei ’90, Pino Daniele desse voce ad una generazione e ad un’intera città, prima che la deriva decadente della musica neomelodica sfregiasse il volto di Partenope.
La città sul golfo, del resto, era da sempre stata crogiolo di culture e commistione di influssi. Il jazz ed il blues trasmessi dai giradischi dei soldati americani negli anni ’40, ed il rock che arrivava da oltreoceano nei ’60 si fondevano con quella sorta di scala araba tipica della canzone melodica napoletana e, prima o poi, qualcuno doveva raccogliere i frutti di quell’incrocio, per certi versi, così africano, così nero senza esserlo completamente.
Stilare una fredda analisi del percorso creativo di Pino Daniele sarebbe come una triste autopsia, qualcosa di asettico e, in fin dei conti, di inutile. I primi dischi ancora legati alla cultura musicale dei vicoli e bla bla bla, la deriva blues e bla bla bla, gli esperimenti fusion ed il passaggio a sonorità definite mediterranee e bla bla bla, l’esaurirsi della poetica e bla bla bla, gli ultimi lavori oramai solo esigenze contrattuali e gli ultimi colpi di coda. Tutte parole relativamente sterili.
Basta aprire Wikipedia per avere un’idea di chi era Pino Daniele.
Ciò che invece è complicato da spiegare è il sentimento di familiarità che avevamo, noi cresciuti nella Napoli di quel benedetto decennio, con le parole di Pinuccio, come da sempre era chiamato dai fans di lunga data.
Quel vezzeggiativo così Made in sud la dice lunga su cosa era davvero il cantautore napoletano.
Nelle sue canzoni si evidenziava quella malinconia da domenica pomeriggio, quello spaesamento tipico del trovarsi in ballo ma, al tempo stesso, la gioia del vivere quotidiano che può dare “‘na jurnata ‘e sole e quaccheduno ‘ca te vene ‘a piglià“.
Tempo fa dissi che la morte di Pino Daniele era, per me che sono cresciuto con le sue note, come la perdita di un carissimo vicino di casa, un amico lontano, forse un mezzo parente, un appartenente a quella categoria parentale così napoletana, ‘nu cumpariello. Perché questo è stato Pinuccio per i tanti che, come me, hanno mosso le dita su una chitarra esercitandosi con i suoi arpeggi; per noi che aspettavamo n’ata staggione, che hanno passato minuti fumosi seduti sul cofano di una vecchia Fiat ad aspettare che il tramonto tramutasse il golfo in un’esplosione di rossi mentre sopra il Vomero il cielo era sereno, aspettando la luna ch’è fummo, è fummo e niente chiù.
Come ha detto molto più significativamente Fausto Mesolella, la scomparsa di Pino Daniele, più che una perdita, è invece un problema.
Un problema serio perché con lui scompare un artista che ha saputo coniugare i venti moderni con le radici nostrane ma anche straniere, non sempre riuscendoci perfettamente ma sempre tentando, sempre coniugando influenze, sempre azzardando. Unire il blues al rap, forse con risultati non sempre degni di nota, la melodia napoletana al jazz in maniera invece più che eccelsa, le sonorità mediterranee con l’elettricità tipicamente rock sono stati, questi, esperimenti alchemici che nessuno ha mai ripetuto. Se da un lato la scena napoletana è sempre stata pregna di talenti, così con nomi storici quali i Napoli Centrale, gli Showmen, gli Osanna, Enzo Avitabile, la NCCP, così con le sonorità nate a cavallo dei ’90, tre nomi su tutti i 24Grana, i 99posse e gli Almamegretta (va fatto notare che nessuno di questi nomi, fatto salvo Enzo Avitabile, ha resistito al passare del tempo), dall’altro lato, si diceva, Napoli non ha più prodotto nessuno che riuscisse a conciliare sperimentazione, tradizione e comunicazione transgenerazionale del calibro di Pino Daniele e all’orizzonte le nuvole che si addensano non lasciano intravedere futuri successori.
Pino Daniele è diventato un viso in quel poster triste di personaggi della cultura partenopea oramai passati a miglior vita che spicca in alcune pizzerie del centro. Un nome che ha portato la città della sirena ad alzare, seppur per poco tempo, la testa nel panorama culturale nazionale.
Il concerto in memoria, poco tempo dopo la sua scomparsa, nella piazza che vide le sue prime esibizioni, è stato un vero e proprio tributo dell’amore che la sua gente provava per il suo uomo in blues. Si sono mobilitate associazioni, il comune ha intitolato una strada, si sono organizzati giri turistici delle vie che l’hanno visto crescere. Nella migliore tradizione italiana si è fatta polemica su dove e come celebrarne i funerali. Un noto cantante neomelodico tristemente assurto alla fama nazionale, a somma dimostrazione dell’imbarbarimento della cultura, e non solo musicale, di questo paese, ha rilasciato un’intervista in cui asseriva che fra lui e Pino Daniele vi fosse rivalità… che è un poco come dire che esisteva rivalità fra la squadra di calcetto del bar all’angolo ed il Real Madrid. Va detto, a memoria dei più, che quando si presentò sul palco di piazza Plebiscito durante uno degli ultimi concerti di Daniele, più un atto dovuto che altro l’invito a quel concerto, questo pittoresco personaggio fu accolto da un boato di fischi tale da spezzargli il fiato in gola, a dimostrazione di ciò che pensava il pubblico napoletano della sua musica.
Un triste accostamento di due modi di fare musica a Napoli e in Italia.
Insomma il problema di trovare un degno sostituto di Pino Daniele è arduamente risolvibile e, del resto, io non vedo nemmeno perché dovrebbe essere risolto.
Io non voglio un’altra voce che ne prenda il posto.
Io voglio di più di quello che vedi.
Voglio ricordare la tua.
Statte buon’ Pinù.

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