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Il cerchio si chiude: intervista a Giuliano Dottori

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L’arte della guerra è un disco importante, suddiviso in due volumi perchè capita che la vita finisca dentro le canzoni, segnata da prospettive diverse, da ritmi morbidi e ritmi in levare, da conflitti e rinascite. Ad un anno di distanza dal Vol 1, il cerchio si chiude e Giuliano Dottori ci racconta dettagli e precisazioni su un capitolo fondamentale della sua carriera artistica.

Negli ultimi anni hai scritto tante canzoni. E hai deciso di raccoglierle in due volumi sotto un unico titolo: L’arte della guerra. Spiegami come questo titolo, che chiama in causa il trattato di Sun Tzu, chiude il cerchio con la nuova uscita del 7 aprile…
Il titolo è più che altro una suggestione, frutto di un incontro del tutto fortuito in libreria qualche anno fa. Leggendo le parole di Sun Tzu ho ritrovato alcune riflessioni, come l’inevitabilità del conflitto umano o l’equilibrio che l’uomo dovrebbe imparare osservando e conoscendo la natura, che in modo più occidentale stavo facendo in quel periodo. Mi sembrava un bel titolo, molto evocativo.

Il disco si apre con un sottofondo “quotidiano”. Vorrei che mi raccontassi quei suoni, quel rumore di vita e la connessione sia con l’incipit di tutto il lavoro che con quello di Inseguendo la città
Il disco si apre esattamente da dove era finito il Volume 1. Ci tengo moltissimo a questo genere di cose, se vuoi sono un po’ maniaco: diciamo che per me i dischi sono come un racconto continuo, e ovviamente il Volume 1 e il Volume 2 dovevano essere ancora più legati. Se tu li ascolti di seguito ti accorgi che il rumore di fondo che sfuma alla fine del Volume 1 è lo stesso che apre il Volume 2, ed è nient’altro che il rumore del mio studio, Jacuzi, dove ho registrato tutto quanto. Ho messo un paio di microfoni panoramici e ho registrato l’aria. Ci sono anche delle note di chitarra. Si sente qualcuno che sbatte i piatti, e qualcun altro che cammina.

Fiorire è un verbo che rimanda ad un significato di azione, e sembra tirarsi dietro non solo la volontà ma una sorta di necessità fisiologica, una svolta. Come quando spingi un corpo verso il fondo… poi risale…
Allude in modo molto evidente alla circolarità della vita e da un certo punto di vista è il testo che meglio di altri rappresenta il concept de L’Arte della Guerra. In realtà la necessità è fisiologica, ma c’è tanta volontà nel ritornello, mi piaceva mettere questo contrasto, che poi è proprio ciò che ci distingue dal resto della natura e degli animali: la voglia, la spinta a fare qualcosa, che non è solo istinto ma è anche e soprattutto consapevolezza, scelta.

Credo che Fiorire sia una delle tue canzoni più riuscite, perché coniuga l’essenza della tua poetica intimistica, un’ottima capacità melodica e una bella dinamica delle parti strumentali. Come consideri tu questa tua figlia e perché l’hai scelta per duettare con Dimartino?
È l’ultimo brano scritto per questo disco e ne sono molto fiero. La scelta di Dimartino è stata di sola pancia: l’ho visto live al Biko, qui a Milano, e ho pensato che le nostre due voci potessero stare bene insieme. Lui era molto contento e il duetto è nato in modo molto naturale.

Andare via. I ricordi. La malinconia letta con suoni ariosi…
Andare via è il pezzo più pop che ho mai scritto e non lo sento affatto malinconico!

Il pavimento del mattino è un brano molto anomalo nell’ambito della tua produzione. Penso alla metrica del testo, al cantato, tuo e a quello di Ghemon. Il rap è un’esplorazione, come mai?
È una canzone molto anomala, è vero. C’è tanto levare, ci sono tanti suoni profondi, quasi dub, anche nella produzione ho spinto molto in quella direzione. Anche il testo lo trovo anomalo, è una direzione che mi piace molto e credo che ci tornerò anche in futuro. Il rap mi sembrava perfetto per come il brano si appoggia e Ghemon… beh, ho consumato il suo disco l’anno scorso e anche le sue cose prima. Credo sia un super talento e mi pare che la sua parte si inserisca in modo perfetto sul pezzo.

Forever giovane, il titolo è un chiaro omaggio a Dylan. Cosa rappresenta nel tuo percorso artistico questa forma di ironia che la canzone svela?
Forever Giovane è una canzone strana. È stata una delle prime de L’Arte della Guerra e se ascolti il provino è una delle cose più tristi che io abbia mai scritto. E di robe tristi ne ho scritte parecchie… Si chiamava Giovane come me. Poi un giorno mi è venuto in mente questo titolo sbilenco e da lì ho pensato: beh, Forever Giovane è un titolo simpatico, facciamolo simpatico questo pezzo”. Quindi abbiamo giocato a farlo reagetton, con i fiati distorti e la chitarrina col chorus tipo blues del Mali. È un gran miscuglio, perché invece il cantato rimanda a cose tipo Rino Gaetano, robe molto lontane da me. Però l’idea era questa: giocare un po’, che a fare le ballate tristi siamo bravi tutti e soprattutto anche basta.

In questo Vol 2 l’autobiografia è parte di una macrostoria. Il tuo sguardo supera i confini interiori e abbraccia la condizione di un’intera generazione. In Siamo tutti degli eroi questa generazione si confronta con quella che l’ha preceduta. E scegli l’archetipo paterno per innescare il confronto. Parlami di questo brano e dimmi quali sono gli effetti delle lotte che questa società ci costringe a combattere…
Il confronto generazionale è un grande classico che si ripete uguale da secoli. La mia generazione, quella dei 30-40 anni ha vissuto sulla propria pelle cambiamenti radicali ed improvvisi, come Internet che nel giro di pochi anni ha cambiato tutto, il precariato, la cattiva finanza, l’assenza di diritti, rigurgiti fascisti più o meno in tutto il mondo, sempre più solitudine e isolamento. Siamo tutti degli eroi è una sorta di orgogliosa presa di posizione: sì, lo so che voi avete ricostruito l’Italia, ma c’è stata anche poca lungimiranza e un lungo periodo di buio politico che fatico a vedere finito. E il risultato che noi 30-40enni siamo andati via a cercare fortuna, oppure siamo rimasti, testardamente, inventandoci lavori dove non c’erano, diventando più creativi, cercando di costruire qualcosa di nostro.

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A proposito delle lotte della nostra generazione e degli effetti che generano, 2041 completa un po’ il quadro…
È un brano molto malinconico, l’unico a mio avviso dentro questo Volume 2.

Angelina è il brano che più mi ha fatto pensare all’influenza di De Gregori. Sarà il titolo, sarà il testo nella sua costruzione. Cosa rappresenta De Gregori per la tua scrittura?
De Gregori è stato il migliore, a livello di canzoni, in Italia. Sui dischi c’è sempre qualche scivolone, non è De Andrè, che invece aveva una venerazione per l’idea di disco, e ha fatto dischi inattaccabili. Nei dischi di De Gregori c’è sempre, a un certo punto, una canzone scadente e in questo assomiglia molto al suo idolo Bob Dylan. De Gregori rappresenta questo, l’ambizione di scrivere la canzone perfetta.

Non voglio sapere chi è Angelina. Voglio sapere cosa rappresenta…
Angelina rappresenta ciò che è, una donna che passa. Mi piace associarla ad un pomeriggio di un’estate appiccicosa, seduto in un bar di Lisbona o di Palermo a guardare la gente.

Se Fiorire è una delle tue canzoni più riuscite, Angelina è una delle tue canzoni più belle in assoluto. Cosa auguri a ciascuna?
Che ognuno ci trovi dentro qualcosa di sé.

Nei due volumi de L’arte della guerra non c’è solo tradizione cantautorale, ma c’è tanta scuola moderna americana tra le fonti di ispirazione. Vuoi raccontarmi questa vicinanza emotiva?
È una vicinanza di semplice abitudine all’ascolto: sono cresciuto coi dischi di Dylan, dei Counting Crows, di Neil Young, di Beck e ora di Patrick Watson, di Sufjan Stevens, di Bon Iver, dei Grizzly Bear. Il folk americano è ciò che mastico da sempre. Il mio percorso è un po’ questo, cercare di trovare la mia voce italiana dentro questo enorme calderone.

È evidente una dimensione più corale nella realizzazione di questi due volumi. Vorrei che mi descrivessi le qualità dei tuoi due compagni di viaggio, Mauro Sansone e Marco Ferrara…
La principale qualità di Mauro e Marco è che mi sopportano. Oltre a questo sono due musicisti straordinari, molto aperti e molto creativi.

Live avrai in formazione un nuovo elemento. Chi è e come mai l’hai scelto?
Sì, si chiama Gabriele Nicu ed è un pianista di estrazione classica, ma molto abile nel suonare i synth. Con lo scorso tour mi sono semplicemente reso conto che nei live c’era sempre qualcosa che mancava: essendo chitarrista tendo a privilegiare le parti di chitarra, ma di fatto questi due dischi sono pieni zeppi di pianoforti e synth che ho suonato io stesso in studio. Solo che sono elementi più nascosti, che però mancano molto quando non ci sono. Gabriele va a colmare questa mancanza e devo dire che sono molto contento di come si sia evoluto il live.

La campagna di raccolta fondi lanciata su Musicraiser conferma una buona base di fans. Credi che il sistema funzioni bene così o sia migliorabile?
Non lo so. Adesso mi godo questo piccolo successo di chiudere positivamente due campagne a distanza di un solo anno. Il crowdfunding è senz’altro una strada ottima, anche perché responsabilizzi il pubblico e cerchi di porre l’accento sull’importanza dei dischi. Per molti l’era del disco è finita. Può essere, però fatico a immaginare alternative.

Scegli una sola parola per L’arte della guerra (Vol 1 e 2), ora che il cerchio si è chiuso…
Consapevolezza.

Foto di Nicola Cordì

Forever Govane – Video

Angelina – Streaming

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