Sdraiarsi sui prati a valle delle montagne bellunesi, ascoltare la voce di Luigi Tenco mentre si legge un romanzo di Pennac. E’ in questo scenario, che può apparire così deliziosamente nostalgico, che prende vita la formazione dei Non Voglio che Clara. Il nome è preso in prestito da una frase de La prosivendola di Daniel Pennac: “Non voglio che Clara si sposi”, proclama con determinazione il protagonista del romanzo. E liriche appassionate, declaranti quel trasporto sentimentale che diventa struggente ostinazione e spasimo, caratterizzano il lavoro che la formazione di De Min si propone di andare a svolgere.
Dopo varie autoproduzioni, la band esce nel 2004 con il primo Lp Hotel Tivoli dove lampanti sono le peculiarità che li decreteranno come una rivelazione: testi ricercati, sonorità prevalentemente acustiche, cantautorato spiccatamente sixties. Brani come Quello con la telecamera e Le Paure rimarranno nella memoria degli affezionati, regalando ondeggiamenti d’animo tra i racconti di solitudine e timidi approcci tra i tasti di un pianoforte.
Trascorrono due anni e nel 2006 il gruppo pubblica un disco dal titolo omonimo. I Non Voglio Che Clara proseguono sulla linea già tracciata, ma sviluppandola e maturando; la scrittura si fa più articolata e gli arrangiamenti più complessi. Abbandonate quindi le verdi vallate e immaginate di essere a New York, di passeggiare la notte tra le vie e le luci della città; per la strada echeggia una melodia dalle atmosfere retrò che vi trascina in uno di quei lounge-club dove si respira aria di musica d’autore e di sigarette. Si inizia con gli archi di Un nome da signora per poi proseguire con la struggente Ogni giorno di più, un’intensa lettera d’amore dove il pianoforte e i violini ti trasportano nei meandri dell’intimo; parole lancinanti che, come pennellate, dipingono sentimenti tenaci dai colori delicati, tenui e gentili. Nel mezzo dell’album Troppi calcoli dà la sferzata pop più spensierata che continua con In un giorno come questo, il lalalla finale sembra catapultarti in una serata di pioggia a cantare per le strade con l’ombrello e Fred Astaire, ma in modo meno stonatamente vivace. Con la nostalgica Questo lasciatelo dire si ritorna alle emozioni profonde che trascinano quel velo grigio con sè che rende il tutto più soffuso. Il picco di malinconia viene raggiunto con L’avaro, che senza alcuna remora si potrebbe inserire tra le creazioni italiane più belle degli ultimi anni degna della poesia di Piero Ciampi; una traccia dove si rincorrono cambiamenti stilistici esplodendo in un finale di archi, e il violoncello quasi sepolcrale e definitivo riporta al cuore la negazione di momenti profondi e il voler relegare a ricordi ferite ancora brucianti in un presente che è amaro. Non voglio Che Clara può essere considerato il lavoro di affermazione del gruppo nel panorama musicale indipendente di qualità. Delle note che riescono a pizzicare corde del profondo con non celato spleen, distinzione, ricercatezza; e che ci lasciano sognanti tra i viluppi di tormenti e passioni reali o solo agognate.
Altri quattro anni di concerti, incontri, sperimentazioni che danno come frutto l’album Dei Cani pubblicato nell’ottobre del 2010. La co-produzione di Giulio Ragno Favero (One dimensional man, Il Teatro degli Orrori) e l’elettronica dei Port-Royal, che partecipano in alcuni pezzi dell’album, danno una deviazione al percorso sin ora intrapreso dal gruppo, tralasciando in alcuni episodi la vena cantautorale e planando verso sonorità tendenti alle strade già battute dell’indie pop più electro. Le chitarre abbandonano l’acustica e si fanno più imponenti, come ne Le guerre, e compaiono computer e synth, come ne Il tuo carattere e il mio. L’apertura de La mareggiata del ’66 è corale e trascinante tra la batteria imponente e le note gravi del pianoforte; L’inconsolabile è un’ottima traccia che si rifà alla leggerezza tipica dell’italianità anni 60, l’uso della seconda voce femminile dà un tocco fresco e ameno e riporta alla mente i primi Baustelle. Altro notevole episodio è Il dramma della gelosia dove torna la vecchia e cara impronta del gruppo, pianoforte e archi in primo piano, testo accorato trabordante intensità e tormento; così come L’amore ai tempi del kerosene, un addio sofferto, un urlo insopprimibile, commuovente e al tempo stesso rassegnato.
E’ come se Clara fosse cambiata, come se avesse perso per strada un po’ della sua innocente speranza, del suo mondo ovattato dai languidi fumi di pianobar. Come se i segni del tempo e della vita avessero creato una corazza più ruvida; è cresciuta ed è inevitabilmente disillusa. Forse proprio per questo tanti inconsolabili disincantati si ritroveranno ancora di più nelle sue storie, nelle sue parole, ma in fondo un po’ degli antichi candori vorremmo che rimanessero in noi sempre, rievocatori di memorie impolverate e di amori di gioventù.
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