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L’inverno di Cesare Pavese

Quella poesia dove ci ritroviamo, secondo Lele Battista.

No, io son nato per l’inverno (11 Agosto 1927)

No, io son nato per l’inverno,
per il grigio e il freddo che mi serra d’intorno
per starmene raccolto a stringere sul cuore la mia fiamma
povera fiamma vacillante.
La bella natura
Che si scalda e vive decisa
Al sole, ai colori più sani,
datrice agli eletti di pensieri ed opere forti,
inesorabile come la vita,
universale piena,
a me (piangete o miei poveri sogni)
dà smarrimento e stanchezza,
a me spegne ogni fiamma, fonte più pura.

Cesare Pavese

Un inno all’inverno scritto in estate. Il caldo opprimente dell’atmosfera estiva che dona agli “eletti” energia vitale, per Pavese non è altro che la soffocante sottolineatura del suo isolamento rispetto agli altri, della sua snervante stanchezza , del suo (e del mio) smarrimento. Lo stesso smarrimento, forse, che fa premere il grilletto a Meursault, il protagonista de “Lo straniero” di Albert Camus, che in un torrido pomeriggio d’estate spara quasi contro la sua volontà a un uomo sulla spiaggia.
L’immagine più affascinante che ci rimane è quella del freddo che lo serra d’intorno, che lo protegge dal mondo, un freddo che è amico benevolo e sincero, non come la natura della bella stagione, inesorabile come la vita, che con i suoi colori muove gli altri uomini alla falsità di quei rapporti da cui si sente escluso, nella calma del suo inverno.
Che Pavese lo intenda in senso metaforico o meno, il risultato non cambia: l’inverno è un luogo meraviglioso, un rifugio sicuro, una calma apparente che si nutre di silenzi ovattati. D’estate nel mio cervello fa un freddo cane, perché forse anche a me, il sole, spegne ogni fiamma.

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