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Solo agli sguardi è concesso di sperdersi nell’aria: Marlene Kuntz @ Auditorium Parco della Musica 12/04/08

Una voce che è altrove penetra il buio. “Questo ti farà soffrire mio povero amore”. È un liquido denso che scorre nell’assenza di luce. “Perché l’amore è così misteriosamente esclusivo?”. S’uncina alle pelli, alle attese, ai sogni…“io sto parlando della danza”. Attraversa l’aria scura come vena nella carne che porta un sangue di parole, concrezioni di senso che pronunciano e dispiegano La vera vita di Sebastian Knight, la storia e la visione di un amore ricamato sulle pagine da Nabokov. “Quando dico ‘due’, ho già cominciato a contare e non vi è più limite. Esiste solo un numero vero: Uno. E l’amore, a quanto pare, è l’esponente migliore di quest’unicità”.

Nell’oscurità, dove tutto è ancora avvolto dal reame dell’invisibile, si disvela uno dei terreni originari che ha dato nutrimento e fondamenta all’ultimo incanto tessuto dai Marlene Kuntz. La voce confluisce nel silenzio, in questo si dissolve, e sulla cima dei candelieri sorgono tenui e calde luci, le tenebre vengono ferite da passi e raggi che scoprono un luogo popolato da malie. In questo regno abitato dalla cura, giunge con una carezza sulle corde di una chitarra il tempo in cui l’anelito della musica congiunta alla poesia può trovare la sua soddisfazione, compiersi senza concludersi. Stato d’animo fluisce, portando alla presenza un fascino languido che avviluppa i corpi stretti dall’abbraccio del velluto rosso e in questa morsa dolce si riscoprono le parole di una fiaba, quelle rivolte da una volpe ad un piccolo principe. “Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della mia felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore… Ci vogliono i riti” (Antoine de Saint-Exupéry). Il teatro con le sue poltrone intrise di emozioni, con i suoi ritmi e le sue costrizioni seducenti, il libretto di sala con le sue promesse e i suoi annunci fanno sì che il cuore possa prepararsi, scoprire il prezzo della propria gioia e il piacere dell’attesa del piacere. È la vertigine del rito. È la ritualità in cui i gesti si illuminano e trasfigurano in sensi, in cui attendere significa pre-sentire, indugiare in ogni fremito e lasciare che tutto trabocchi, che anche i respiri diventino atti d’amore. Offrendoci la bellezza e il fascino del rito, la musica ci consegna a noi stessi, impedendoci qualsivoglia fuga, privandoci delle distrazioni degli urti, della protezione del chiasso. Questo è un dono. Priva del velo fatto di movenze ed urla, si leva nitida un’occasione… l’occasione per fermarsi, per farsi uccidere e salvare, per sentire, per lasciarsi violare le difese, affinché il suono e il senso arrivino nell’intimità più profonda, nei recessi dell’animo. “Non c’è contatto di mucosa con mucosa eppur mi infetto di te”. I brividi scoprono di potersi sfiorare attraverso il respiro, si contaminano, si ghermiscono, s’intrecciano e fondono silenti e protesi. Odori dell’amore nella mente dolente, tremante, ardente. È il tempo in cui innamorarsi ad ogni attimo amando lentamente, accogliendo l’amore tendendo dolcemente ogni fibra della propria anima. È un tempo prezioso e lucente che i Marlene Kuntz, impreziositi dal talento di Davide Arneodo e Luca Saporiti, aprono suonando con tutta la loro maestria, la loro grazia, la loro infinita eleganza vibrante d’ardore. In quest’apertura che è epifania ed alba di luna, all’eco delle corde sferzate e dei metalli percossi ci si affida inermi, darsi è semplice come un abbraccio, inevitabile come il bacio degli amanti, quello che accade anche attraverso le distanze.
Lieve, Musa, Bellezza… ad ogni canto si scopre il prezzo della propria felicità. La canzone che scrivo per te, Nuotando nell’aria, Uno… sonorità e parole scorrono come acqua che s’insinua e scintilla, materia liquida di meraviglia che pensiero e dita trasformano in inesauribili incanti. Ricordo, Negli abissi fra i palpiti, L’esangue Deborah… da mani, polsi e labbra sgorga una musica viva che brama e richiede qualcosa di magnifico, chiede la comprensione, prega l’anima di prenderla con sé, in sé, reclama uno sforzo e quindi una forza, quella necessaria per tendere e dischiudere la propria carne, per lasciarsi scavare le viscere, per farsi inondare offrendosi come una ferita che vuole cullare il sangue, come un’insenatura di terra che non desidera altro che essere riempita dal mare. Intanto le luci a volte sono soli che sorgono o colori che disegnano forme, astri caleidoscopici o manti, delicate aurore o voli che si riflettono su pannelli di ori e ricami.
Non sono le morbide poltrone a trat-tenere le membra, a legarle, è la musica che inchioda i corpi al sentire, al piacere, è la poesia che impone l’immobilità perché per un attimo esistano solo i suoi battiti, perché questi si sostituiscano al cuore ed animino la carne. Schiele, lei, me nella sua essenzialità insegna che ci si può perdere per una carezza, in una carezza. Amen ed Ineluttabile, seguite da una scia eterea di spore e fecondità, portano in bocca la ferocia della bellezza. Furente ed impetuosa 111 ricorda alla pelle che anche la grazia può colpire e ferire, che una scudisciata può essere o disvelare meraviglia e un incanto svelarsi artiglio. “Un sospiro può affilare il taglio del rasoio”… ne scoprono la verità i corpi che si pongono in ascolto, in un silenzio che ha il sapore del rispetto. Per una o mille notti accogliere questa musica, esistere nel suo grembo, significa soffermarsi sulle sue sfumature, nei suoi respiri, tra le sue vene… significa riceve in sé i passi di una ricerca, le tracce di un cammino in fieri. Questa notte accogliendo le sonorità e le parole si com-prende una via aperta e segnata dagli slanci, che s’incrocia per tre volte con altri percorsi, quelli di Giorgio Gaber, della
P.F.M. e dei Diaframma… La libertà, Impressioni di settembre e Siberia diventano vesti bellissime, pelli indossate con eleganza, scintille sbocciate tra le mani a dire quel desiderio mai pago di dialogo e ricerca che fa di una musica un’opera d’arte, che testimonia una bellezza alta. Solo in un tempio, come lo è il teatro, l’anima può scorgere e sentire la luce dell’arte, lo splendore della bellezza, i Marlene Kuntz hanno fatto di questo incanto un dono che resta come traccia di senso.
Vieni col ricamo. / Disfa la spera, scucimi / le ferite. Spegni la luce e / ci spandiamo su carta neraAnne Sexton. (Lost Gallery)

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