Home / Recensioni / Il Grigio – Giorgio Gaber

Il Grigio – Giorgio Gaber

Ritrovarsi a combattere con l’ambiguità, con la pochezza, inaccettabile. Lambire i giorni per trovare soluzioni all’apatia che mangiucchia i contorni delle ore. Due atti divisi in quadri. Tipica normalità familiare ed estranea, la nostra quotidianità.
Un uomo che ha superato i quaranta anni, un ospite indesiderato, ed il contorno.
Una donna che illude e può tutto, che indora ed ignora, misteriosa, con una figlia.
Un vicino di casa che vive di severo rigore, o molto più semplicemente, di umanissimo squallore.
Un figlio, una moglie, un gatto. Dio. Chi non ha nome.
Questa di Giorgio Gaber non è un’opera teatrale, un monologo. E’ un’intuizione, una rivelazione, un insegnamento, una presa di coscienza, una storia che è di tutti, che è tutte le storie. E’ la musica delle sillabe cozzanti, dondolanti. E’ l’arte di un pifferaio magico, il silenzio di un pensiero sottotitolato.
Il protagonista va a vivere in una casa in campagna, per ritrovare la propria dimensione. Un’oasi di liberazione e ricerca su se stessi, di riposo e di costruzione.
Ma non sa che dovrà fare i conti con un topo che proprio non gli darà tregua, che sarà per lui coscienza e sconfitta, tormento e rabbia.
Metafora di tutto e di niente, uno sdoppiamento della propria mente, un’analisi di se stessi attraverso il corpo grigio e agile di una bestia.
Riconoscersi, forse, e spaventarsi.
Perché non c’è molta differenza tra un roditore cieco e un vicino di casa come “il colonnello”.
Muto e preciso, impeccabile, degno. Solo. Spaventosamente solo. Che ha come meta la mediocrità. In un momento storico che Gaber definisce La Volgarità. Che si conferma attraverso la “fluorescenza” della televisione. Che spara sogni e luci artificiali su corpi vivi e inconsapevoli delle loro potenzialità, delle loro forze.
E’ molto più facile sorreggersi su quattro zampe piuttosto che saltare in piroette su un piede.
La rassegnazione crea fardelli di abitudini troppo pesanti per liberarsene. Fastidiosi e maleodoranti, ratti. La dipendenza. L’ottusità.
E quel topo, che non si lascia catturare, che illude e spaventa, e aizza, rovina, esaspera, è ogni cosa che è stata, che può essere, che sarà.
Ogni riflessione che segue un dolore, un disagio, un ostacolo. Perché la nostra mente non cerca solo soluzioni, cerca anche consolazione, appigli, ricordi migliori da rimpiangere e piangere.
Ed il protagonista comprende adesso quanto tempo è andato perso a tirare pugni contro il vento.
Nel VII Quadro del primo atto, Gaber parla dell’Amore: “L’amore non sarà mai… “materia”, “terra”, “cosa”… sarà sempre qualcosa che vola… una farfalla che ti si posa un attimo sulla testa… e ti rende tanto più ridicolo quanto maggiore è la sua bellezza.”
Perché l’Amore reale non è il compromesso, è la stessa direzione. Non è venirsi incontro, è volarsi accanto. E’ fondersi. E’ rendersi liquidi. Assumere ogni forma. Esistere.
Nell’ultima frase del primo atto si legge:” Non si può vivere… in quel raffreddore dell’anima. È per questo che si ha bisogno di un nemico… sì, anche inventato. Questa assurdità del “superare”, questa spinta alla lotta, questa finta corsa alla vita e alla morte, di cui noi non abbiamo alcuna parte cosciente… è il nostro tormento e la nostra delizia.”.
Dare un volto ai propri fallimenti, non responsabilizzarsi più del dovuto. Sottrarsi agli occhi degli altri e ai nostri occhi. Fingersi perfetti, integri ed essere invece miseramente rattoppati.
Il secondo atto inizia con l’ennesimo tentativo, da parte del protagonista, di eliminare il topo utilizzando il gatto del figlio. Tentativo vano, chiaramente. Smentire ogni certezza anche radicata, sognare lampi di coscienza reali, ancora fare i conti, senza tregua. Per purificarsi e liberarsi, per affrontarsi e aggredirsi, privarsi, depravarsi.
Nel penultimo quadro c’è la lotta dei contrari, la mancanza di quel topo che sembra perso, che cancella rassicurazioni di gabbie da abitare. Perché la libertà fa paura e minaccia di troppe possibilità. E’ vasta, interminabile, incontrollabile. E priva di ancore di odio da gettare in mare. E dalla mancanza nasce la richiesta a Dio, di comprendere, di guardare. Di dedicare quell’ Amore che solo Lui è in grado di provare e che a noi non è permesso conoscere. Perché noi siamo mortali e immorali e straripanti di paura, perché la rassegnazione crea gli orrori, ed è la ribellione invece che plasma l’argilla.
Riconoscersi simili a quel topo sporco, essere vicini al nulla più che al tutto.
Reagire a questa consapevolezza, non permettere tanta pochezza.
“Avete mai visto le spalle di un uomo che cammina davanti a voi? Io le ho viste. Sono le spalle comuni di un uomo qualsiasi.” Siamo noi, quelle spalle. Siamo noi senza slanci. A testa china. A camminare verso il mondo, senza correre. Rassegnati ai nostri compiti da bravi essere umani, stretti nei nostri vestiti buoni da personaggi sani. Quanta follia nasconde la necessità di perfezione? Siamo così, siamo deserti di carne. “Residui di persone che non esistono.”
E poi l’ultimo quadro. Basta un dettaglio. Per dare luce ai dettagli. Per riprendere il coltello e lanciarsi all’attacco. Elaborare l’ultima strategia, essere certi di essere vincenti. E credere di aver eliminato quel topo, dannatissimo topo senza pietà. Per poi scoprire di essere stati presi in giro ancora. Ma stavolta provare piacere e necessità di saperlo ancora vivo, “la necessità di qualcuno o qualcosa che non faccia addormentare i tuoi dubbi, che non ti faccia riposare sulle tue presunte comode poltrone. Sentivo che accettarlo e conviverci era come convivere con la vita.”.
“Avete mai visto le spalle di un uomo che cammina davanti voi? Io le ho viste. Sono le spalle comuni di un uomo qualsiasi.” E quanta tenerezza fa la mediocrità, l’assenza, la somiglianza, la fragilità. Senza mete reali, ma con solo le possibilità. Senza puntare in alto, puntare almeno a domani.
“Tentativi di persone che forse… esistono.”
“Sì, quell’ uomo è tutto. Bisognerebbe essere capaci di trovare… l’indulgenza e l’amore che dovrebbe avere un Dio che guarda.”

Credits

Label: Carosello – 1989

Line-up: Giorgio Gaber; Sandro Luporini

Tracklist:

    I atto

  1. I quadro
  2. II quadro
  3. III quadro
  4. IV quadro
  5. V quadro
  6. VI quadro
  7. VII quadro
  8. II atto

  9. I quadro
  10. II quadro
  11. III quadro
  12. IV quadro
  13. V quadro

Links:Sito Ufficiale,MySpace

Ti potrebbe interessare...

Travis_LA_Times_album_cover_artwork_review

L.A. Times – Travis

Succede che trascorrono 25 anni in un soffio e ti ritrovi a fare i conti …

2 commenti

  1. Intensa prima recensione che innaugura degnamente la nuova nostra sezione. Luciana…solo immensamente grazie!

  2. un fiume di liricità che cerca l’appiglio migliore… proprio nello stile della musica del maestro Gaber.. grande Lucy!

Leave a Reply