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La musica diventa visione cinematografica: Across the Universe (Julie Taymor)

acros2.jpgIl vento profumato dal mare scompiglia i capelli di un giovane che si domanda, cantando, se c’è qualcuno che vuole ascoltare la sua storia, solo un’armonica a vetro accompagna la sua voce… è il suono di un cristallo misto al sussurro dell’anima a dare inizio ad Across the Universe, il film di Julie Taymor presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma. Come una carezza leggera e serica le note di Girl ci accolgono, ammalianti increspature d’acqua da cui non poter distogliere lo sguardo che si trasformano in travolgenti onde, nei vortici impetuosi di Helter Skelter.

La musica e le immagini si intrecciano per strappare i sensi dalla quiete della battigia e condurli fin nelle profondità oceaniche, tra la spuma delle onde più alte, in una vertigine in cui riscoprire che sapore ha un respiro e il suono del battito del cuore. È in questa vertigine che si comprende quanto la storia che ci vien chiesto di ascoltare verrà narrata con tutti i linguaggi possibili, con segni di qualsivoglia forma purchè capaci di farsi culla di senso, giacché questa è una storia fatta di sillabe di colore, di verbi di luce, di parole in volo come pioggia senza fine in una tazza di carta (Words are flying out like endless rain into a paper cup”), degli arabeschi del pensiero e dei disegni del suono, di echi ed immagini di luce spezzata che danzano come un milione di occhi (Images of broken light which dance before me like a million eyes”). È una storia che si dispiega e porta per tutto l’universo, quell’universo infinito, fatto di amore e passione, di astri ed ideali, di valori ed illusioni, di lotte e di pace, di soli e pensieri, di immagini e musiche, che abitiamo.
S’ingoia un tremito e ci si lascia condurre in un cielo dove brillano diamanti, lì dove perdersi e fermarsi un attimo lungo centotrentatre minuti ad assistere ad un concerto, ad un dipinto, ad una pièce teatrale, ad un musical, ad un film, ad una caleidoscopica visione, ad una danza… al fiorire di una bellezza che non cerca un nome che la definisca, ma solo sensi desiderosi di ac-coglierla.
Accoccolati in un campo di fragole ogni senso viene toccato e dischiuso, aperta come un fiore di maggio la nostra percezione si fa calice che riceve un nettare che non è materia, ma suono… trentatre canzoni, che ispirano, nutrono, sottolineano, scandiscono e danno voce alle vicende di un gruppo di ragazzi che fluiscono insieme alla Storia del mondo. I brani si fanno dialogo oppure occasionano oniriche visioni, in ogni caso danno vita alla storia e non si limitano ad accompagnarla. Alla base c’è la comprensione di quanto sia stato reciproco il rapporto tra i Beatles e il loro tempo, un rapporto fatto di influenze vicendevoli. Ma tanto la musica dei quattro di Liverpool quanto gli anni ’60 hanno ancora oggi qualcosa da offrire, un’emozione e un’opportunità di riflessione per sentire…di più.
L’amore di Lucy (Evan Rachel Wood) e Jude (Jim Sturgess) s’intreccia con le vicende di Max (Joe Anderson) che, cercando una sua identità, si ritrova pur non volendo arruolato nell’esercito e spedito come carne da macello in Vietnam. La ricerca da parte di Prudenze (T.V. Carpio) di un luogo in cui possa venir accettata lei e la sua omosessualità si fonde col fermento artistico del Village, col canto di Sadie (Dana Fuchs) e la chitarra di Jo-Jo (Martin Luther McCoy). I deliri psichedelici accadono mentre le marce dei pacifisti si riversano lungo la East Coast e sulle strade cominciano a presentarsi anche i Weathermen.
Dalla vita dei campus americani ci si ritrova in stanze che d’improvviso appaiono fatte di nuvole, si passa dallo spettacolo di Mr. Kite (Eddie Izzard) ai viaggi tra colori e prati guidati dal Dr. Robert (Bono). La gente comincia a scendere in strada ed un homeless (Joe Cocker) cantando Come Together ci ricorda che allora per protestare si usciva di casa e ci si metteva fianco a fianco, che il dissenso si nutriva di un’energia fisica e mentale che scaturiva anche dalla condivisione. Lo zio Sam scuote la sua anima di carta ringhiando quanto desideri quei giovani inconsapevoli o idealisti, convinti di poter evitare la guerra o di onorare una bandiera ed un popolo… sulle note di I Want You (She’s So Heavy) le immagini ci graffiano e ci fanno sì considerare che la leva non è più obbligatoria, né qui né negli States, ma i giovani partono ancora a trovar la morte e a portarla.
Intonando con rabbia Revolution, Jude ci ricorda una volta in più quanto sia importante non solo ciò che facciamo, ma come lo facciamo ed allora basta poco perché appaia chiaro che la pace e la giustizia non possono venir difese con sassi e bombe… non allora, non oggi.
La lingua assapora l’amaro misto al gusto delle fragole e gli occhi si aprono per lasciar scorrere via le lacrime ed al contempo accogliere la meraviglia intrecciata alle note di Strawberry Fields Forever… frutti inchiodati e sanguinanti, sguardi dolenti e paura rappresa tra le ciglia, rumore di elicotteri e vibrazioni di chitarre, fragole lasciate cadere nella vernice, come bombe, colore che si fa sangue, esplosioni che dirompono in petto… la vita è facile ad occhi chiusi (“Living is easy with eyes closet”) ma tale sequenza non concede questa semplicità fittizia, la nega, ne smaschera la natura illusoria e non permette di serrare le palpebre…lo sguardo resta aperto, senziente.
Si perde il fiato investiti dalle immagini, dalle idee pronunciate a voce alte. Avviluppati dalle visioni e morsi dalla musica non si può far altro che restare in ascolto, con tutti e cinque i sensi, di quest’opera magistralmente plasmata da Julie Taymor. La regista ha messo a frutto la sua vasta esperienza, così il live action, l’animazione tridimensionale e l’uso del blue screen contribuiscono a dar vita a visioni surreali tanto quanto l’esperienza sulle tavole del palcoscenico dove per anni ha contribuito all’immortalità delle opere shakespeariane. Dall’adattamento teatrale di Hop-Frog di Poe (Fool’s Fire) la Taymor è passata a quello cinematografico di Tito Andronico (Titus), dal Metropolitan Opera al Sundance, da Il Re Leone sulle scene di Broadway alla vita di Frida Kahlo ridisegnata su pellicola (Frida)… questo percorso attraverso le arti l’ha portata ad acquisire la sapienza del fare, quella grazia che le ha permesso di intrecciare un sogno, di tessere una fantasia capace di illuminare il reale.
Al suo fianco Elliot Goldenthal (già premio oscar per Frida), il compositore che ha arrangiato i brani dei Beatles facendoli emergere nella loro essenzialità e ponendoli in dialogo con altri generi. Tenendo ben presente le caratteristiche di ogni singolo attore, Gondenthal è riuscito a fondere le sonorità originarie con il rythm and blues così come con il gospel, forte è la commozione di trovare una Let it be cantata da un bambino e da un coro di sedici elementi che accompagna le immagini di un funerale…immagini che non ci fanno dimenticare gli scontri razziali e la loro drammaticità. A questa commistione di generi hanno contribuito anche il talento di Martin Luther McCoy e di Dana Fuchs, il primo cerca di richiamare con le sue sei corde Jimi Hendrix e la seconda evoca Janis Joplin, del resto non a caso la Fuchs è stata tra le attrici che per due anni hanno portato in scena lo spettacolo off-Broadway Love, Janis. Ma all’eccellente risultato contribuiscono tutti gli attori, basti pensare che ben l’80% della pellicola è stato girato in presa diretta e si è ricorso al sync ed a precedenti registrazioni solo quando i rumori e i frastuoni urbani non hanno lasciato altra possibilità o le scene erano particolarmente complesse, come nel caso della magnifica sequenza sott’acqua. Indicativo anche l’uso di microfoni unici per permettere agli artisti di passare agevolmente e senza stacchi dal recitato al cantato…nonché l’apprezzamento di Yoko Ono e Olivia Harrison e l’entusiasmo con cui l’opera è stata accolta da Ringo Starr e Paul McCartney.
All’incanto delle immagini ha contribuito anche la coreografia, che è stata affidata a Daniel Ezralow, uno dei fondatori dei MOMIX e di ISO (I’m so Optimistic). Anche lui ha spaziato dal teatro al cinema e per questo film ha dato vita a sorprendenti danze ma anche a movimenti fluidi e musicali che si adattassero alla dimensione di confine tra stato onirico e reale in cui i protagonisti agiscono. La stessa Taymor ha però dato un ulteriore apporto alla meraviglia visiva che la pellicola offre, infatti ha curato personalmente le varie maschere usate, capaci di cancellare il confine tra sonno e veglia, ispirandosi ai lavori di Peter Schumann, scultore di origine tedesca che nel 1963 fondò a New York la compagnia Bread and Puppet, contraddistinta dall’impegno politico e sociale… un altro modo per riflettere sulla fusione delle arti e sul loro essere legate al reale.
Un pensiero, questo, che ci resta dentro anche grazie alla scena finale, a quelle parole che non restano in superficie né scorrono via, no one you can save that can’t be saved…All you need is love. Jude (Jim Sturgess) canta insieme agli altri queste parole da un tetto, evocando l’ultimo concerto dei Beatles a Savile Row, le canta per tutto l’universo, Across the Universe, perché ovunque non venga meno la consapevolezza che tutto ciò di cui si ha bisogno è l’amore…nelle infinite sue forme, come passione da effondere nel proprio fare, come cura, come rispetto di sé e dell’altro da sé.

Trailer (Girl + Helter Skelter)


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2 commenti

  1. Penso sia difficile “azzeccare” la colonna sonora adatta in base al film e alla scena.
    Della Taymor ho visto Tutus e devo dire che, a parte il fatto che ho adorato l’uso dei colori e il riadattamento in chiave moderno-claustrofobica, la colonna sonora la ricordo poco.
    Questo non l’ho visto ancora ma cercherò di rimediare.
    Comunque, in fatto di pezzi che sottolineano la scena, penso che “The eternal sunshine of a spotless mind” (tradotto penosamente in “Se mi lasci ti cancello”) sia a dir poco perfetto…
    Tu che ne pensi?

  2. A volte accade che immagini e musica creino insieme alle parole e al pensiero un vero e proprio stato di grazia…credo proprio che nel film di Gondry questo accada, è come se pellicola e colonna sonora avessero uno stesso respiro in comune. La traduzione del titolo è invece un mistero…o forse un modo penoso per “commercializzarlo”.
    Tornando agli stati di grazia, nel film della Taymor ne trovi alcuni semplicemente imperdibili. Nè lei nè l’arrangiatore hanno fatto delle canzoni dei Beatles una colonna sonora o gli elementi di un musical, in certi momenti sono anche questo ma non solo. Di fatto c’è una storia semplicissima che si incontra con la Storia e con una musica epocale, tre fili che s’intrecciano creando un disegno in cui viene esaltata la meraviglia che ogni trama custodisce. L’uscita nelle sale italiane è prevista per il 23 novembre, personalmente tornerò di corsa a vederlo e te lo consiglio di cuore…la musica in questo caso non sottolinea o esalta una storia, ma la ispira, le dà il respiro delle sue idee, delle sue suggestioni, della sua bellezza.
    Ah, se possibile, credo sia preferibile vederlo in lingua originale (sottotitolato magari)!!! Uno dei tanti meriti del film sta proprio nel modo in cui gli attori passano dal recitato al cantato…nel doppiaggio temo si perda questo prezioso elemento.

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